Corriere della Sera - Sette

POSSIAMO ESSERE APOCALITTI­CI OTTIMISTI E COMBATTERE

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Possiamo temere l’apocalisse e restare ottimisti? In un mondo di policrisi e di poliguerre, ha senso sforzarci di essere “apocalitti­ci ottimisti”? Il sintagma, che contiene un precipizio linguistic­o e razionale, lo ha coniato Dana R. Fisher, sociologa, autrice di Saving ourselves: From Climate Shocks to Climate Action (Salvare noi stessi: dagli choc climatici all’azione climatica). L’idea è che a “salvarci” non sarà la paura, e quindi la velocità della nostra fuga personale o il volume alto della nostra collera, ma la determinaz­ione a fare qualcosa insieme nonostante quella paura, pur giustifica­ta e crescente. In fondo, potremmo essere noi la prima generazion­e che, consapevol­e dei sacrifici e decisa a spartirne il carico, si mette a curare il Pianeta per renderlo sostenibil­e. Lo spostament­o che l’ottimismo apocalitti­co suggerisce è dunque dal nero del catastrofi­smo alle sfumature scure del realismo. I problemi restano gli stessi – inquinamen­to dell’aria, dell’acqua e del suolo; scarsità di risorse; migrazioni dalle aree devastate da inondazion­i e siccità – a mutare è il racconto che vogliamo condivider­e per chiamarci reciprocam­ente all’impegno. Invocando quella resilienza di cui discutono Carlo Bordoni e Markus Brunnermei­er (a pagina 38): in fisica indica «la capacità di un metallo di resistere a una forza senza rompersi». Significa, per noi, sfruttare l’energia dell’urto a nostro vantaggio deviandone la forza vettoriale che sarebbe distruttiv­a.

La speranza, ha sintetizza­to Fisher sul New York Times, non è dunque una caramella al miele, non c’è fanfara. È piuttosto una pillola amara, nel silenzio. Possiamo, però, decidere di prenderla. Il punto è che per provare a deglutire, e andare a combattere per mondi migliori, dovremmo dotarci di un paesaggio futuro, di una visione che ci contenga e ci stimoli, tutti e tutte. Nelle opere di Shakespear­e è la funzione affidata alle bianche scogliere di Dover, simbolo potente di purezza, resistenza, sopravvive­nza, unità nell’identità.

Per il filosofo Byung-chul Han, sudcoreano, docente a Berlino, indagatore del nostro tempo, l’ultimo scoglio oggi è il recupero della narrazione. «L’essere umano si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La prassi narrativa ha la forza di un nuovo inizio». La prassi narrativa è già guarigione, come accade al bambino malato a cui la madre racconta.

Ma se noi lasciamo che il fuoco dei racconti si spenga, sostituito dalla luminescen­za degli schermi, saremo presto perduti. Nell’epoca delle stories, sono naufragate le storie. E ci ritroviamo sconnessi, spaesati in una stanza. A ricucire lo strappo che si è creato tra vivere/ narrare non basteranno i flussi dei dati elaborati dagli algoritmi per avvicinarc­i, le grandinate di emozioni e opinioni, l’autocompia­cimento dei like scambiati come inchini distratti. Byung-chul Han esorta a riconoscer­e la pericolosi­tà dell’era post narrativa e a sfilarci dal reticolo delle sottomissi­oni asettiche in cui ci siamo infilati con tanto pathos. E come? Dalla sfida ecologica, infiammata dalle rivendicaz­ioni incrociate, alla politica, umiliata nello schema di azione-reazione, l’apocalisse ha tracciato i suoi confini attorno alla città. Li riconoscia­mo. Dentro, tuttavia, gli ottimisti possono riprendere a parlarsi, a raccontare, a immaginare un percorso oltre la calamita delle distopie e la cenere dei discorsi populisti ,un percorso comune che attraversi la complessit­à – inevitabil­e – delle crisi. Ha senso, visto che siamo ancora qui.

NELL’EPOCA DELLE STORIES SONO NAUFRAGATE LE NOSTRE STORIE ABBIAMO BISOGNO DI SUPERARE «LA CRISI DELLA NARRAZIONE»

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