CHIARA VALERIO «SONO STATA UNA BAMBINA CHE AVEVA DESIDERI NON NOMINABILI PER QUESTO AMO I VAMPIRI»
aggiungo Chiara Valerio in un pomeriggio di questa primavera già troppo calda. Dall’hotel in zona stazione cammino per più di mezz’ora seguendo gli ordini di Google Maps: costeggio e attraverso il Tevere, fino a ritrovarmi nella piccola piazza di casa sua. È appena tornata da Venezia, dove vive, metà dell’anno, o della settimana. «In questa casa sono arrivata nel 2019», mi dice. «Da quando mi sono trasferita a Roma ho sempre vissuto a Trastevere. All’inizio in una stanza in affitto sopra a un bar. Poi con un caro amico, Nicola Ingenito. Fino a quando è arrivata Marcella, la mia fidanzata. Mi ha detto: “Prendiamo una casa che non sia né tua né mia: scegliamo un progetto insieme”. L’ha trovata lei. È molto comoda: non ha balconi, ma la piazza su cui affaccia è il nostro terrazzo. E da qui si vede il fiume: bisogna sempre provare a stare vicino all’acqua, ti ricorda che niente è permanente».
Chi dice e chi tace l’ha scritto qui?
«L’ho scritto soprattutto in Puglia, d’estate. Per la vita che faccio i mesi in cui scrivo i romanzi sono quelli delle vacanze. Qui leggo e scrivo gli articoli. I romanzi al massimo li correggo: sono veloce a scrivere ma lenta a consegnare, perché correggo ossessivamente».
Questo è romanzo sul desiderio nascosto dietro un’indagine su una morte sospetta.
«Non credo alle avventure interiori. Ci credo solo per i capolavori assoluti: quelli di Thomas Bernhard, Kafka, Virginia Woolf. Per evitare di cedere alla lusinga
di scrivere l’avventura interiore di una donna che cerca sé stessa ho pensato: mettiamoci una cornice di genere. Volevo salvarmi dallo sproloquio sentimentale. Sono stata una grande lettrice di gialli per tutta l’infanzia, ma in questo libro il giallo è una scusa».
Per raccontare cosa?
«Che è sempre bello passare vicino a una persona e ricordarsi che si potrebbe avere un’altra vita. Mi piace pensare che il diritto all’inquietudine ce l’hanno anche le persone che hanno una vita soddisfacente, come Lea Russo, la protagonista. Poi c’è la mia natura dadaista: quando ci innamoriamo seppelliamo l’altro di aspettative. Volevo vedere cosa cambia se l’altro è già morto, o appena morto. Nei miei libri i fantasmi spesso sono persone vive. Possiamo sentirci invisibili agli occhi degli altri perché non corrispondiamo a qualcosa: a una certa idea di uomo o di donna, di studioso o scrittore. In questo romanzo il fantasma è un fantasma d’amore: non mi vedi, o io non l’ho vista. Eppure era lì».
Il fantasma come assenza ma anche attrazione.
«C’è qualcosa di infantile: credere che se metti la testa dietro il cappotto qualcuno non ti vedrà. Un po’ per tensione anarchica: non mi piacciono le definizioni. Dopo tredici anni di matematica, in cui ho definito tutto, ho capito che neanche la definizione serve alla chiarezza o impedisce il fraintendimento. Anche perché il fraintendimento è lo spazio della vita».
La prima intuizione da cui è partita?
«Stavo scrivendo il mio romanzo precedente, Così per sempre. C’è la scena in cui Mina Monroy, un vampiro, vede la donna della gondola. La morde e, per la prima volta, sente il suo corpo. Ci sono delle persone che ristabiliscono la gravità, la forza di attrazione. La signora della gondola meritava una storia tutta sua: anche se quella era una preda, mentre Vittoria, la donna misteriosa di questo nuovo romanzo, è più un predatore».
Un libro sugli effetti che l’innamoramento produce sull’identità.
«Io non penso che l’identità sia nella persona, si costruisce in base alle relazioni che tessi. Siamo definiti dalle nostre relazioni: anche quelle mancate, o che
NELLA CASA ROMANA DELL’AUTRICE DI CHI DICE E CHI TACE «PER SALVARMI DALLO SPROLOQUIO SENTIMENTALE HO PENSATO A UN GIALLO»
evitiamo. È qualcosa che mi ha liberato dall’idea che l’omosessualità fosse una mia “diversità”. Io non penso di essere omosessuale da sola, perché l’ho capito quando mi sono innamorata».
È ambientato a Scauri, il luogo in cui è cresciuta.
«Scauri è tutti i turbamenti che ho avuto, non potendomi nominare. Mi piacciono i vampiri perché sono stata una bambina che sapeva di provare desideri che non potevano essere nominati. Alle figure d’ombra, ctonie, liminali, ho sempre creduto. Ovvero a quelle cose che esistono ma non hanno nome, o che fanno paura. Mi interessava celebrare questa provincia che mi ha fatto capire che esistono cose che non possono essere pronunciate ma non possono neanche essere negate». Quando è andata via?
«Molto tardi. L’università l’ho fatta a Napoli, ma da pendolare. Prendevo il treno ogni mattina alle 5.46. Le mie sorelle mi chiamavano Tanguy, come il ragazzo del film, che studia cinese e non va mai via di casa. Corrispondeva al mio senso dello studio in una vita monastica: non dovevo provvedere a nessuna necessità pratica. Sono andata via nel 2005 per una donna che viveva a Modena. L’amore è veramente quella cosa che sposta. Ora vivo metà del tempo a Roma e metà a Venezia. Una scissione in cui sono felice».
A Venezia come si trova?
«Mi calma molto. Un po’ per tutta quell’acqua intorno: sembra che le brutture del mondo arrivino più lentamente. Tutti vanno a piedi o prendono i vaporetti: è come se i soldi contassero meno. Mi ricorda molto Napoli. Venezia è Oriente: è tutto mischiato. Fa sembrare che il mondo sia più tenero».
I libri quando arrivano?
«I miei genitori compravano le enciclopedie dalla rateale Utet. Mia madre era ossessionata dagli atlanti. Sono cresciuta in una casa piena di libri. Sugli atlanti degli animali disegnavo: ringrazio i miei genitori, per noi il libro non era un oggetto sacrale. Ma arrivo alle medie e piango». Perché?
«Dovevo studiare su libri che non potevo leggere come volevo. Da pagina tot a pagina tot, bisognava rispondere alle domande. A un certo punto però la professoressa di italiano ci dà da leggere I Malavoglia di Verga. Mi ricordava la famiglia di mia madre, il nespolo vicino casa. Lì scatta qualcosa». A che livello?
«Facevo il riassunto di tutto: negli anni del liceo leggevo 400, 450 libri l’anno. Di qualsiasi tipo, alto e basso, Scauri mi ha insegnato la mescolanza. Ancora oggi non ce la faccio a prendere un treno senza almeno un paio di libri nello zaino. Il libro mi fa tornare a Dracula: mi crea la terra benedetta intorno, dove non muori».
Però ha studiato matematica.
«Al liceo mi ero innamorata della professoressa. Arrivò da noi al terzo anno: trentatré anni, bionda. Affinché lei mi veda devo diventare bravissima. Arrivo all’8: secchiona ma non genio. Alla maturità era membro interno della commissione, alla domanda cosa vuoi fare all’università?, purché lei mi guardasse, almeno una volta, rispondo: “Matematica”. Ormai l’avevo detto, e per me le parole sono sempre state un indizio».
Com’è andata?
«È stata un’avventura. Pensiamo a cosa può fare un amore non consumato, nella forza della propria tarda adolescenza: ho dedicato tredici anni al pensiero di una donna che non ha mai pensato di stare con me, e con la quale forse io non sarei stata». E la letteratura?
«Non ho mai smesso di leggere e scrivere: ho bauli interi di cose scritte negli anni dell’università. Dal lunedì al venerdì matematica alla Federico II, il sabato andavo alla Biblioteca Nazionale di Roma e studiavo letteratura. Wittgenstein, Carlo Ginzburg, un anno ho letto tutta Antonia Bayatt, un altro tutto Saramago: facevo delle mono
«HO LASCIATO SCAURI NEL 2005 PER UNA DONNA CHE VIVEVA A MODENA. L’AMORE È VERAMENTE QUELLA COSA CHE SPOSTA»
grafiche. Mi sono laureata che non avevo neanche 22 anni e ho subito cominciato a guadagnare. Ripetizioni, poi il dottorato. Non volevo più costringere i miei a mantenermi: non mi hanno mai fatto pesare i miei studi forsennati».
Ad esempio?
«Potevo stare anche quattordici, quindici ore alla scrivania, senza aiutare in casa: hanno tollerato le mie ossessioni. Quando scrivevo racconti, lasciavo passare due settimane e li scrivevo da capo. Se erano uguali andavano bene. Una volta una raccolta intera, mai uscita, I vizi capitati. Credevo di averla persa: l’ho riscritta tutta. Quando l’ho ritrovata era identica».
Ai libri è attaccata fisicamente?
«Meno di un tempo. Quelli di Virginia Woolf e Marguerite Yourcenar, che ho letto all’inizio degli anni Novanta, ce li ho ancora. Ne ho diverse copie: leggere con orecchie e sottolineature a volte distrae, altre è utile. Possono funzionare come le tacche di crescita dei bambini: qui non avevo capito, ora magari va meglio».
Vedo qua sul tavolo la Lettera all’amazzone di Marina Cvetaeva.
«Un’autrice che amo: priva di tenerezza e molto ironica. Riesce a trattare la commedia e la tragedia come gradazioni di uno stesso elemento. Ed è una sbruffona: ha qualcosa di provinciale anche se provinciale non lo era per niente. Come l’inquietudine non è solo degli inquieti, la provincia non è solo di quelli che sono nati in provincia».
Virginia Woolf?
«La scrittrice a cui sono più legata. Per anni ho pensato fosse Yourcenar: lì appeso al muro c’è il suo ritratto che mi ha regalato Letizia Battaglia. Ma da Virginia Woolf ho imparato che non devi farti trovare dove gli altri pensano che tu sia, e che neanche tu ti devi trovare dove ti aspetti di essere. È il principale esercizio narrativo. Parlava di classi sociali attraverso le differenze linguistiche o dettagli concreti: senza fare proclami, senza rivendicazioni. Virginia Woolf è la gioia della realtà».
Ha iniziato a tradurla partendo da
Flush.
«Ci ho messo due anni: ho ascoltato l’audiolibro inglese fino a saperlo a memoria per cercare di ripetere quel ritmo. Woolf mi ha mostrato che si può scrivere un grande romanzo d’amore parlando di una poetessa e di un cane. Riuscire a capire qual è la tessera più preziosa di un puzzle enorme: questo rende scrittori».
Quando ha conosciuto Michela Murgia?
«L’ho incontrata ad Amelia, in Umbria, il 13 marzo 2010. Abbiamo iniziato a parlare lì, a una cena, e abbiamo continuato a farlo fino a quando, come in tutte le storie felici, la fine arriva perché uno dei due muore». Affinità o compensazione?
«È stata una delle persone con cui sono stata meno d’accordo sul metodo e quasi sempre in disaccordo nel merito. Condividevamo quest’idea che tutto fosse mobile in una cornice di affetto, dunque di fiducia. Si poteva dire tutto, anche in maniera dura, ma era chiaro che nessuna usava le parole per ferire l’altra. Abbiamo litigato, ma si litiga sempre quando si vuole restare. Mi ha reso più forte, ma credo che le persone che ci amano ci rendano sempre più forti». Disaccordo più frequente?
«Le discussioni degli ultimi anni erano tutte sul linguaggio. Michela credeva che senza parole non esistesse la realtà, io invece, venendo dalla matematica, non penso che le parole siano le sole portatrici di realtà. I misteri eleusini sono indicibili nel senso che passano per altri linguaggi: il ballo, il corpo. Né credo alla proliferazione delle definizioni. Non sento che dire di essere una donna lesbica, bianca, cisgender mi esaurisca o completi. La penso come Saramago che, nel Memoriale del convento, scrive: “Bisognerebbe sapere solo il nome e aspettare tutto il resto della vita per sapere quello che manca”. Ma la verità è che io non so più cosa ho cominciato a dire io e cosa ha cominciato a dire Michela».
Di nuovo l’identità come relazione.
«Murgia è stata una componente fondamentale della mia vita soprattutto nella dimensione dell’allegria. Una cosa che mi piaceva molto fare con lei, e che faccio anche con Teresa Ciabatti e Mario Desiati, sono gli scherzi. Ne faccio e me ne faccio fare solo per vederli ridere. Gli scherzi sono grandi gesti di attenzione. Se c’era
Michela non mi annoiavo: non pensavo che la serata fosse persa, non pensavo che la giornata fosse persa. Non pensavo dunque che la vita fosse persa».
Il confronto tra di voi ha incarnato anche quello tra letteratura e politica?
«Per me i libri non sono bottiglie lanciati in mezzo al mare con un messaggio dentro perché qualcuno ti deve venire a salvare. La penso come Kundera: salvare ha senso solo se fai il medico. Murgia invece pensava che bisogna pronunciare alcune parole per raccogliere attorno a quelle parole dei comportamenti e delle persone. Ma lei veniva dal mondo cattolico, il che significa pensare che le persone possano e debbano essere corrette. Io vengo da due genitori comunisti, ovvero da una visione per cui il progresso non è mai singolare ma è collettivo o non ha senso. Più che a correggere il male ho sempre pensato a non compierlo, perché correggerlo è molto difficile. Poi Murgia diceva sempre di non essere solo una scrittrice».
Lei invece?
«Per me non c’è niente di più alto. Noi impariamo solo quando raccontiamo le cose e quando ascoltiamo i racconti. E gli scrittori veri non sai da dove vengono, non sai quanto durano. Stanno dietro le loro opere, e grazie a quelle, se il tempo è clemente e le loro parole abbastanza forti, entrano a far parte della struttura linguistica e immaginativa del mondo. Oggi siamo in un periodo in cui gli scrittori stanno davanti alle opere e sono costretti a starci. Anche perché, come scrive Carlo Ginzburg, negare le possibilità del proprio tempo porta a pazzia o a esclusione». Essere una donna nel mondo editoriale?
«Della differenza maschi/femmine mi sono accorta molto tardi. Penso di aver subito meno il sospetto sessista: presentandomi come plurilaureata in matematica proprio scema non potevo essere. Grazie a Michela Murgia, a Tiziana Triana e ad altre intellettuali ho capito l’importanza culturale del femminismo. Ma non attraverso la mia esperienza personale: sarà anche che ho l’estetica dell’impiegato. O di Paperino». Ha molto chiaro come vuole apparire.
«Ho l’idea della divisa, e il diktat di Patrizia Cavalli. Una volta le chiesi da quanto tempo portava il suo taglio di capelli, disse: “Da sempre, perché a un certo punto uno invecchia e si deve riconoscere”. Poi mio nonno, muratore, ha sempre portato il gilet, e lo stesso mio padre: devo pensare che questo gilet viene da una frequentazione famigliare. Oltre che dalla letteratura inglese. Maria Luisa Frisa dice che sono un dandy. A metà anni Novanta sono arrivate le fotografie degli scrittori: Virginia Woolf è sempre riconoscibilmente lei, Susan Sontag è lei anche col pigiamone con le orecchie da orso. A un certo punto si sceglie un elemento identificativo: per tranquillizzarci ci rendiamo ripetibili». Nei suoi libri c’è sempre un animale ispirato a Miles, il suo gatto.
«I nomi delle sue incarnazioni letterarie li inventa Marcella. In Chi dice e chi tace è Gallina nera, per la posizione in cui a volte si mette. Sono arrivata nella vita di Miles quando aveva un anno, ora sta per compierne otto. Al mattino quando mi alzo e mi metto a leggere senza accarezzarlo o dargli da mangiare viene a ricordarmelo. Mi ricorda che i viventi che ami ti possono disturbare».
L’identità è relazione e non si limita ai rapporti umani.
«È stato trovato in campagna, dal nipote di Marcella, con una zampa rotta. La madre lo aveva lasciato indietro: forse pensava che non potesse proseguire. Non sapeva fare la pasta con le zampe: gliel’ho insegnato io. È capitato due o tre volte che sono tornata a casa annichilita, dal lavoro o da altro: mi sono buttata sul letto, è venuto e mi ha abbracciato. Lui lo sa. E anche questo va contro lo strapotere della nominazione. Miles non parla, però c’è. E in maniera incontrovertibile. C’è, e nei miei libri ci sarà sempre».
«UNA COSA CHE MI PIACEVA MOLTO FARE CON MURGIA SONO GLI SCHERZI: LI FACEVO SOLO PER VEDERLA RIDERE. SONO GRANDI GESTI D’ATTENZIONE»