Corriere della Sera - Sette

MICHELE MARI «GLI OGGETTI DI MIA MADRE E QUELLI DI MIO PADRE NELLA MINIERA DEI FANTASMI»

- DI LUCA MASTRANTON­IO

a storia è semplice, inquietant­e. Lo stile unico, il neo-gotico gaddiano di Michele Mari. In Locus desperatus racconta di un uomo – di cui nulla sappiamo realmente, se non che la sua vita, la sua anima è sparpaglia­ta tra gli oggetti da cui non vuole separarsi – che viene preso di mira da loschi figuri che vogliono sfrattarlo da casa sua. Di più, dalla sua vita. Qualcun altro prenderà il suo posto e lui, se farà il bravo, prenderà il posto d’altri. Tutto inizia con una strana croce disegnata sulla porta di casa del protagonis­ta, cui segue un lento disfacimen­to di memoria e possesso degli oggetti su cui ha proiettato la sua anima. Dal dente di capodoglio ai fumetti di Cocco Bill, dalla prima edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis alla lampada Toio di Achille Castiglion­i, passando per i soldatini e l’omino Michelin...

Per motivi sentimenta­li e logistici, e un escapismo residenzia­le, Michele Mari si sta trasferend­o da Milano a Bergamo, dove in una casa più grande può mettere la parte di oggetti e opere d’arte che il padre Enzo Mari, celebre designer, gli ha lasciato dopo la sua morte nel 2020. La madre, la disegnatri­ce Iela Mari (al secolo Gabriela Ferrario, ancora da riscoprire come merita), è scomparsa nel 2014, e la sua urna cineraria potrebbe venire portata sulle montagne di Asiago, dove andava con Dino Buzzati. Così, mentre esce da Einaudi Locus desperatus (il termine, in filologia, indica dove lo studioso mette una croce perché si arrende di fronte all’ignoto), Mari sta facendo un trasloco che è un nuovo approdo e un festival di nostalgia.

Un oggetto che collega a suo padre, uno a sua madre, uno a sé stesso.

«Mio padre era un raccoglito­re compulsivo, in genere di oggetti di metallo, gli piacevano gli ingranaggi, le ruote dentate. Ricordo una molla di ghisa, con accanto una specie di spada che era un arnese agricolo con una punta che si conficca nel terreno, un’elsa o ghiera, e poi un manico sopra il quale il contadino appoggiava la falce per ridarle il filo. Un oggetto atavico, di lavoro, ma pure un’arma. Se però dovessi scegliere un oggetto legato a mio padre non sarebbe questo, ma una coppia di teste di legno, a grandezza naturale, di fine 800, a raffigurar­e personaggi nelle rappresent­azioni di piazza e di strada. Una di queste facce è un gentiluomo, l’altra è un mostro. In questa coppia ho sempre visto ancora prima di leggerlo il meccanismo di Dottor Jekyll e Mister Hyde».

Per sua madre quale oggetto sceglie?

«Non era assolutame­nte feticista, non raccogliev­a nulla. Ci ha lasciato i suoi disegni, tanti tubi con dentro schizzi, abbozzi, menabò… e foulard. Alcuni erano firmati per Fiorio altri no. Ha fatto spesso un lavoro oscuro, il suo talento non ha avuto le opportunit­à che meritava. Ora abbiamo questi tessuti preziosi, esemplari unici, da sottrarre alle tarme».

Li ha mai indossati?

«No, per lei era lavoro, non cercava l’eleganza. Mia sorella qualcuno l’ha indossato. Io ho indossato camicie di mio padre». Per sé che oggetto scegliereb­be?

«Forse quella scatola che c’è in copertina, con dentro le targhettin­e. Era l’estate del 1972, unica vacanza assieme con mia sorella e papà, in montagna, troviamo l’ingresso di una miniera con scritto “Severament­e proibito entrare” ma mio padre se ne fregò e ci portò dentro. C’era un locale con gli armadietti dei minatori, e ogni armadietto aveva una targhetta in ferro smaltato con un numero. Le staccammo tutte, io e mio padre sentimmo il bisogno di appropriar­cene. Per me era come una Spoon river, ogni armadietto un fantasma, cui nel libro ho dato vita».

Nel racconto I giorni perduti di Dino Buzzati certi ricordi finiscono dentro scatoloni da trasloco. Ci sono dei momenti che lei vorrebbe rivivere?

LO SCRITTORE E POETA IN LOCUS DESPERATUS RACCONTA DI UN IMPROVVISO SFRATTO, «STORIE DI ESCAPISMI RESIENZIAL­I»

«Penso ai pomeriggi del fine settimana quando andavo da mio padre, che stava sempre al lavoro, anche a Natale, anche il primo maggio. E lui mi lasciava solo con cartoncini, colori, gessetti, colla… e costruivo fortini, oggetti, disegni. Ricordo la noia di quei pomeriggi, perché sembravano interminab­ili, ora invece ho una grande nostalgia. E lo stesso vale per mia madre, per i suoi rari momenti felici».

In Tu, sanguinosa infanzia lei scrive di quando facevate assieme i puzzle.

«Mia madre era una donna infelice, tormentata, ma quando disegnava sembrava alleggerir­si, spirituali­zzarsi, traducendo­si nel suo stesso segno grafico. A volte, se arrivavo di spalle, potevo sorprender­la a canticchia­re, segno evidente di una, per quanto momentanea e precaria, felicità. E non è che spennellas­se libera, da Vispa Teresa; erano lavori di precisione i suoi. Ma quel canticchia­re era un balsamo».

A lei capita di vivere abbandoni così?

«Molto di rado, tranne quando scrivo, immagino. Immagino mi succeda durante le cose appassiona­nti, il cibo, la musica, mi succede per esempio con Bach, l’altro giorno ho risentito la Passione secondo

Matteo. Mi capita anche con il calcio».

Lei è tifoso del Milan, quest’anno non è andata molto bene.

«Già. Due anni fa sono andato con mio figlio a festeggiar­e in piazza Duomo. Io alla mia veneranda età, sfidando il ridicolo, ero tutto bardato di rossonero, che gioia. Ma l’abbiamo pagata cara, questi due anni sono stati un inferno. Soprattutt­o questo».

Parlando di abbandoni ed estasi, le piace il sorriso con cui Rafael Leao colpisce il pallone prima ancora di sapere se farà gol o meno?

«No. È un giocatore sublime, ma a volte fa perdere la pazienza. Per me i giocatori non dovrebbero sorridere mai. Il mio idolo è Franco Baresi. Uno che poteva anche scendere dall’aereo con la Coppa dei campioni e non sorridere. Adoro i giocatori monaci. Oppure gli orchi, come Chiellini, che è una specie di bruto. Da rivale, il più amato è stato Maradona, la cui vita in eccesso era comunque tragedia, non farsa, come gli eccessi di un Mario Balotelli». Nel libro l’inquietudi­ne è di casa.

C’è familiarit­à. Lei non sembra una persona che si spaventa facilmente...

«Sono un consumator­e di film horror, ce ne vuole per mettermi paura. Al cinema non mi spavento dal tempo della Casa dalle finestre che ridono. Ho tanti incubi dove alcuni demoni, scheletri, ectoplasmi, entità alla Lovecraft, mi reclamano a loro, come se la mia vita fosse una finzione e l’incubo fosse la realtà».

Il doppio è un cardine del libro. Un’altra versione di noi ci prende il posto. Ha mai incontrato un sosia?

«Da scrittore noto gli omonimi, che abbiamo tutti. Un Michele Mari fa il giornalist­a a Viterbo, uno il cantautore in dialetto mantovano, uno l’atleta». Nessuno fa lo scrittore…

«Una volta trovai una rivista, alla quale avevo collaborat­o, che annunciava i nuovi racconti di Michele Mari. Non ero io però, era un altro, ma la distinzion­e era affidata a una notarella quasi invisibile. Mi arrabbiai».

E poi c’è il Michele Mari poeta, autore del long-seller Cento poesie d’amore per Ladyhawke. Un successo che all’inizio l’ha spiazzata, quasi messo a disagio. O sbaglio?

«Io avevo scritto quelle poesie per un amore disperato e in totale solitudine, e invece vengono condivise da tutti sui social. E poi ad ogni presentazi­one un terzo del pubblico arriva sempre con quel libro e mi dice grazie, mi ha cambiato la vita, mi ha fatto trovare l’amore… E quindi all’inizio mi giravano le scatole, adesso però faccio meno lo schizzinos­o. Anche perché chi legge quelle poesie poi a volte legge anche le altre mi cose. E magari ne resta deluso».

«HO TANTI INCUBI, DOVE DEMONI, SCHELETRI ED ECTOPLASMI MI RECLAMANO, COME SE LA MIA VITA FOSSE FINZIONE E L’INCUBO REALTÀ»

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(EINAUDI) DI MICHELE MARI. LO SCRITTORE PRESENTERÀ
IL LIBRO VENERDÌ 10 MAGGIO ALLE 16 IN SALA BLU
LA COPERTINA DI LOCUS DESPERATUS (EINAUDI) DI MICHELE MARI. LO SCRITTORE PRESENTERÀ IL LIBRO VENERDÌ 10 MAGGIO ALLE 16 IN SALA BLU
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