RUGGERO CAPPUCCIO, TRA SCRITTURA E TEATRO: «RONCONI MI TIRÒ PER LA GIACCA: HO TANTISSIMA PAURA, MI DISSE»
’è modo e modo di pronunciare la frase «i miei antenati hanno fondato Amalfi». Lo si può fare con la protervia dei mediocri o con una delicata sprezzatura che nasce da un’indole «coltivata». Ruggero Cappuccio è questo, un uomo «coltivato»: dall’esperienza in teatro come regista, dalla scrittura (è autore di numerosi romanzi), dal cinema e dai lavori per la televisione. Ma è soprattutto un sessantenne che ha imparato a raccontare le sue origini aristocratiche — impollinate tra Sicilia, Campania e Francia — con umorismo e leggerezza.
Come quando Giuseppe Tomasi di Lampedusa raccontava i fasti di un’epoca dorata che si stava sgretolando sotto i suoi piedi. A proposito, Cappuccio ha appena pubblicato per Feltrinelli un bel romanzo dal titolo La principessa di Lampedusa ed è la storia di Beatrice Filangeri di Cutò, madre dell’autore de Il Gattopardo. Lo scrittore mi saluta collegato in video dalla sua bella casa di Roma e mi mostra un quaderno scuro rilegato, con le pagine ricamate da una scrittura elegante e composta. «È il diario di Beatrice», dice, «ho il privilegio di poterlo leggere».
La storia intreccia finzione e verità: Beatrice è tornata a Palermo dopo la seconda guerra mondiale e si prepara a scrivere un romanzo, dal titolo
L’eclissi.
«Lo sa qual è il titolo originario de Il Gattopardo? Ultime luci. E anche nel romanzo di Beatrice c’è un’intera classe sociale che va in pezzi. Il legame tra madre è figlio è stato importantissimo».
Ma tra le mille diramazioni delle sue radici nobili c’è qualche remoto intreccio con la famiglia Tomasi?
«No, anche se le mie origini sono molto antiche. I miei antenati, nei primi secoli dopo Cristo, fondarono Amalfi assieme ad altre famiglie che si dividevano tra la guerra e gli incarichi di prestigio. Il mio albero genealogico è stato un rincorrersi di feudi, battaglie, titoli nobiliari. Papà, però, era un dirigente delle assicurazioni, uno con i piedi per terra, anche se melomane. Oggi io vivo, almeno per una parte dell’anno, in un antico palazzo nobiliare in Cilento, sopravvissuto a guerre e a terremoti».
È stato per il terremoto in Irpinia che lei, negli anni Ottanta, scelse di frequentare l’università di Salerno?
«Volevo iscrivermi a Napoli, ma quando andai a presentare le carte scoprii che la segreteria aveva sede in una roulotte e che le lezioni si tenevano nei cinema».
Il fatto che la sua sia un’anima divisa tra Napoli e Palermo lo dimostra una passione infantile, quella per i burattini: un po’ «pupo» e un po’ «guarattella».
«È così. Fu grazie a questo che decisi di fare teatro. Ma presto capii che più che l’attore volevo fare il regista: non sono il tipo capace di presentarsi tutte le sere alle nove per andare in scena».
I suoi inizi sono stati tenuti a battesimo, tra gli altri, da Luca Ronconi.
«Che per me, ancora oggi, rappresenta la grandezza. Spiego questo concetto con un aneddoto: un giorno andai a trovarlo in camerino poco prima del debutto del suo lavoro sui Karamazov al Teatro Argentina di Roma. Io non dovevo fermarmi per lo spettacolo, quindi lo salutai e mi avviai verso quella che credevo l’uscita. E che, invece, era un oscuro e ingannevole budello che portava dritto sul palcoscenico. Il sipario si era appena alzato, io stavo per irrompere in scena quando mi sentii tirare per la giacca. Era Ronconi che mi sussurrava: “Ho paura, ho tantissima paura”. Non dimenticherò mai quella lezione di grandezza, che può dirsi tale solo se accompagnata dalla persistente,
LA PRINCIPESSA DI LAMPEDUSA RACCONTA BEATRICE FILANGERI DI CUTÒ, MADRE DELL’AUTORE DE IL GATTOPARDO: «HO LETTO IL SUO DIARIO»
quasi dolorosa, paura di non farcela». Altrimenti è solo tronfia magniloquenza?
«Proprio così. E Luca era un grande, come grande era un altro mio grande amico, Franco Battiato. Una persona con la quale ho condiviso lunghi silenzi, cosa molto rara da raggiungere insieme. Stavamo zitti per ore, magari poi rompevamo l’incanto con qualche battuta, perché lui era spiritoso come pochi. Negli ultimi mesi della sua vita stavamo lavorando a un’opera che avrebbe dovuto chiamarsi Infinity e lui la voleva dedicare a Valentina Tereskova, una pioniera russa, la prima donna a raggiungere lo spazio nel 1963».
A proposito di donne, lei ha lavorato anche con grandi attrici, penso a Piera Degli Esposti.
«Aveva la capacità incredibile di provare una polifonia di sentimenti nello stesso istante. Una facoltà che annulla l’età, un po’ come quando ci colpisce un lutto: ho perso mio padre tre mesi fa e all’inizio mi sentivo tutto e nulla. Mi sentivo bambino e adulto, figlio e padre, vecchio e giovane. La morte apre un varco nel tempo, annullando il dettaglio anagrafico. Ed è in quella finestra che arrivano le idee migliori. Ecco, Piera era una persona che viveva in un eterno lutto creativo». Nei suoi libri ma anche nelle sue opere teatrali, lei mescola il napoletano col siciliano e l’italiano col veneto. Perché?
«Perché è nelle lingue senza memoria che le cose riprendono vita. Sfuggendo all’omologazione, fiorendo nella differenza. D’altra parte, per la maggior parte della gente straniera dire “teatro italiano” significa dire Goldoni, Eduardo, Pirandello. Quindi non l’italiano puro». Eppure lei, sul piano personale, si divide tra due lingue quasi all’opposto tra di loro, il napoletano e il siciliano.
«Ha detto bene. Il napoletano non usa mai il futuro, piuttosto dice “domani vado”. Il siciliano, al contrario, volge al passato anche un’azione vicinissima nel tempo, per esempio dice “mezz’ora fa passai dalla bottega e presi il pane”. Il napoletano è inchiodato in un disperato presente, il siciliano è disteso in un infinito passato. Il napoletano procede per elencazione e per definire, poniamo, uno sciocco è capace di trovare almeno venti sinonimi. Il siciliano, al massimo, dice “non è un’aquila”».
Un altro suo amico, Gigi Proietti: un ricordo, un aneddoto, un lampo di memoria.
«Nessuno come lui sapeva portare il popolare in una dimensione sublime. Una volta lo invitai a un festival per dargli un premio alla carriera. Il premio era una preziosa scultura di Mimmo Paladino. Ma lo portai anche da un amico che fa la migliore mozzarella di bufala in Italia. Siccome Gigi si ostinava a viaggiare in treno e rifiutava le macchine con autista, lo accompagnai in stazione con i due pesi, la scultura e le mozzarelle. Lui, al momento di partire, resosi conto che non avrebbe potuto viaggiare con tutta quella roba, mi disse: “A’ Ruggè, damme le mozzarelle che queste spariscono, la statuetta no”».
Quanto conta la finzione nella sua vita?
«Conta nella vita di tutti. A volte è benefica. Ultimo aneddoto per lei. Una volta un uomo si avvicinò a Tomasi di Lampedusa e gli chiese se Toulouse-Lautrec fosse stato un personaggio vero o inventato. Lo scrittore gli disse che avrebbe indagato e gli diede appuntamento per il giorno successivo. Quando si rividero, Tomasi allargò le braccia e disse: “Guardi, ho verificato, non è mai esistito”. Un amico che aveva assistito alla scena, più tardi gli chiese perché avesse mentito e lo scrittore sorrise: “Qualche volta la gente va lasciata nella beatitudine nel non sapere, nella leggerezza della finzione”».
«MI DIVIDO FRA IL NAPOLETANO, INCHIODATO IN UN DISPERATO PRESENTE, E IL SICILIANO, DISTESO IN UN INFINITO PASSATO»