GIAMPIERO MUGHINI «INVEIVO CONTRO I FASCISTI POI FU MIO PAPÀ A DARMI UNA LEZIONE»
on so come Giampiero Mughini accarezzi i suoi cani (Bibì e Clint), ma credo sappia far bene il contropelo, per aver cura della loro salute. Vale anche per quella strana bestia che è la memoria, che in troppi si allisciano come conviene. Mughini no, il contropelo l’ha già fatto in tanti libri che gli sono costati l’ostracismo a sinistra — dove l’eresia è tollerata meno che tra i cattolici — e lo fa anche in Controstoria dell’Italia (Bompiani), che va «dalla morte di Mussolini all’era Berlusconi». Se fosse una bestia sarebbe un canguro: per gamba, braccio e marsupio. Mughini salta da un’epoca all’altra senza farci cadere e quando tira pugni, con la penna, la finta conta non meno della forza. Ad esempio, sul brigatista Raffaele Fiore: «Pagherei pur di restare a conversare con lui un paio di ore e ascoltare i suoi argomenti, ove ne avesse». Ma quando ha parlato, ha stentato a «pronunziare la verità semplice semplice: trent’anni prima altro non era che un volgare assassino».
I capitoli si aprono con foto che a volte sono pugni in faccia, come la famiglia suicida del vice-sindaco di Lipsia durante la Seconda guerra mondiale o i volantini di terroristi presentati come martiri; altre volte, sono momenti che ci hanno unito, dal Coppi immortalato in un libro di Brera, al boom del design italiano al MoMa di New York, dove celebrati erano anche gli artisti cresciuti sotto il fascismo, a smentire la tesi che non ci fosse stata cultura. Infine, ritratti di chi ha diviso: da Craxi a Berlusconi (e ricorda di averlo votato, non
certo per vanteria), passando per Di Pietro. Il primo ricordo del libro, la Firenze che gli Alleati e i partigiani cercano di liberare dai nazi-fascisti.
«Avevo 3 anni, dei partigiani bussano alla porta, mia madre apre. Vedono se la mitragliatrice che avevano dietro aveva un buon angolo dalla finestra. Così non fu e se ne andarono, non dopo avermi regalato un imbuto rosso».
Nel libro riporta una illustrazione della Domenica del Corriere con i cecchini fascisti sui tetti. Lei si sofferma sulla presenza di donne.
«Conosco a menadito le pagine che
Curzio Malaparte ne La pelle dedica alla battaglia di Firenze, ma ho appreso solo lavorando a questo libro che assieme ai franchi tiratori c’erano alcune decine di donne-cecchino, e come scriveva il Daily Mirror venivano dall’alta borghesia. Parteciparono liberamente a quella che, dal loro punto di vista, era una resistenza a chi attaccava la città».
Penso a Full metal Jacket dove un marine spedito in Vietnam scopre che il cecchino stanato è una donna.
«Di cecchini locali che sparano sugli americani si tratta. L’esito è stato diverso». Da noi furono esercito di Liberazione dal nazi-fascismo, in Vietnam, contro il regime comunista, liberazione non fu. A proposito, il 25 aprile 1961, lei era un giovane di sinistra che invitava a essere più duri con i fascisti.
«Avevo vent’anni, alla manifestazione, tra universitari, comunisti e socialisti, feci una filippica dicendo che eravamo stati troppo teneri con i fascisti, e lasciavo intendere che bisognava uccidere tutti quelli che avevano avuto la tessera. O recluderli in un’isola tipo Madagascar. Nel dire queste stupidaggini non avevo fatto mente che uno di questi fascisti era stato mio padre».
Al Salone di Torino arriviamo dopo un 25 aprile in cui su fascismo e antifascismo ci si è divisi più di prima.
«Per me fascismo e antifascismo sono concetti storici da mettere in cassaforte. Al presente servono termini appropriati. Oggi un dominio di cretini non è meno grave se lo chiami dominio di fascisti. E di cretini ce ne è in grande quantità. Vale
«FASCISMO E ANTIFASCISMO SONO CONCETTI STORICI, DA METTERE IN CASSAFORTE. AL PRESENTE SERVONO TERMINI APPROPRIATI»
per chi non fa parlare Antonio Scurati di Matteotti in Rai e vale per chi non vuole che in Rai parli una donna che è contraria all’aborto, anche se ha usato una parola terribilmente forte, per una cosa che ha un suo inerente grado di terribilità».
Come si esce dalla contrapposizione tra nostalgici del fascismo e nostalgici dell’antifascismo? Sui neofascisti uccisi ad Acca Larenzia lei cita Miguel Gotor, di sinistra, che mette dei fiori.
«Un gesto più potente di chi chiede processi per il saluto romano alla commemorazione. Ero da tutt’altra parte politica all’epoca, ma dentro di me direi “presente”, quei ragazzi uccisi appartengono alla mia memoria, alla mia storia, alla mia vita da italiano dell’ultimo Novecento».
Suo padre era un dirigente del Partito fascista. Parlando di lui, nel libro lo descrive come una «brava persona».
«Quando non avevo più soldi per stampare Giovane critica, la rivista con cui ho animato la cultura di sinistra a Catania, ha pagato di tasca propria. E quando c’era da dividere l’eredità tra me e i miei fratelli adorati, mi tolse la quota che aveva pagato. Parlava poco, mi avrà detto 20 frasi, non di più, e ce le ho tutte conficcate nell’animo». Il momento più felice?
«Alla mia laurea, era orgoglioso».
E uno dei più difficili?
«Eravamo al ristorante, io vado in estasi quando arriva il capo dei camerieri che erano in sciopero, poi lo vedo salutare con deferenza mio padre, il quale mi dirà “quel cameriere che ti piace tanto perché sciopera era un manganellatore fanatico che ho espulso dal Partito fascista. A te piace perché sei un settario”. Ancora mi brucia quella lezione».
Nel libro ricorda un incontro del
1984 con Romano Bilenchi, scrittore comunista, dopo esser stato fascista.
«L’ho incontrato a Firenze, nell’anniversario dell’omicidio di Giovanni Gentile. Mi disse che lui non era più sicuro che fossero stati i comunisti gappisti, dava credito alla versione che fosse opera di fascisti avversi al moderatismo di Gentile. Io rimasi di stucco, Bilenchi non poteva non sapere quello che avevo letto e sentito con le mie orecchie, avevo parlato con il capo dei quattro gappisti che uccisero Gentile: non si limitò a confermare, disse che per noi era impossibile mettersi nei loro panni, nella Firenze del 44 s’erano giocati tutto pur di sconfiggere l’occupazione nazista». Un falso mito degli Anni di piombo era il terrorismo rosso come continuazione della Resistenza tradita.
«Scemenze cui si è fatto finta di credere in troppi. Chi ci credeva davvero c’era, ma era come sono certi terroristi islamici, o come era quel Lorenzo Pavolini che al fascismo ci credeva davvero e aveva organizzato i cecchini sui tetti di Firenze…».
La vendetta indossa spesso la maschera della giustizia. Ma la giustizia non spara a bruciapelo, non appende a testa in giù. Da Dongo e piazzale Loreto fino agli “anni di piombo”. Le piace Clint Eastwood, nei film di Leone sfida a duello e nel suo Gran Torino vince disarmato.
«Se dovessi dedicare questo libro a uno dei protagonisti, sceglierei Antonio Esposito, il commissario che era una spina nel fianco dei terroristi e fu ucciso a Genova da due brigatisti sulle scale di un autobus, disarmato e senza scorta anche se sapeva di essere un obiettivo. Riccardo Dura l’ha ammazzato come un cane. Poi Dura, a sua volta, è morto dopo uno scontro con i carabinieri, colpito alla nuca da vicino… Ucciso come un cane anche lui. Sta al lettore giudicare se è giusto o no, a me sta bene se l’Italia repubblicana non dà la morte a chi ha dato la morte».
Su un’isola deserta che libro si porta?
«Per quello che ci siamo detti, mi porterei Una questione privata di Beppe Fenoglio. Lì c’è la chiave più veritiera sulle scelte individuali, della Resistenza ma non solo. Un libro lunare».
«SULL’ISOLA DESERTA PORTEREI UNA QUESTIONE PRIVATA DI FENOGLIO: LÌ C’È LA CHIAVE PIÙ VERITIERA SULLE SCELTE INDIVIDUALI. UN LIBRO LUNARE»