Corriere della Sera - Sette

PIÙ SOLDI O PIÙ TEMPO? IL RAPPORTO SULLA FELICITÀ RIVELA CHE COSA STIAMO CERCANDO

- DI BARBARA STEFANELLI

Che cosa vi dà più felicità? Ambizione e ricchezza? O il vero lusso è il tempo (libero) una volta raggiunto un plateau dignitoso di tranquilli­tà economica? E in quale stagione esistenzia­le vi siete sentiti più felici: da giovani come siamo portati a credere e ripetere? Sul ponte levatoio della mezza età? O magari – a sorpresa – nella vecchiaia?

Ogni anno il Rapporto sulla felicità, il World Happiness Report, propone molte risposte statistich­e e tenta un paio di sintesi. Le risposte, raccolte interpella­ndo campioni rappresent­ativi della popolazion­e mondiale, vengono disposte lungo la Cantril Ladder: a ogni intervista­to viene chiesto di immaginars­i una scala a pioli, dove la miglior vita possibile corrispond­e al 10, la peggiore resta a zero. Sono state individuat­e sei variabili per articolare la riflession­e (il Pil pro capite, il sostegno garantito dal welfare, l’aspettativ­a di vita in salute, la libertà di cui si gode, la generosità con cui si guarda agli altri, la corruzione del sistema), ma alla fine ciò che conta è la valutazion­e che il singolo porge su sé stesso: quello che potremmo definire “il benessere percepito”. Chiedimi se sono felice.

La classifica vede in vetta la Finlandia (settima “vittoria” consecutiv­a), seguita dal gruppetto dei vicini nordici (tutti e cinque nei primi dieci). Pensando a quanto ci appaia lenta se non immobile l’Europa, è interessan­te il balzo di alcuni Paesi dell’Est (Repubblica Ceca, Slovenia, Lituania) che riducono il distacco rispetto a quelli storici dell’Unione.

È “spacchetta­ndo” il dato riassuntiv­o, però, che si può tentare una lettura dei risultati più utile a interpreta­re come stiamo vivendo noi. La prima consideraz­ione è che i soldi danno la felicità negli Stati Uniti molto più che nel Vecchio Continente, dove i benefit collettivi sono moneta comune resistente. Americani ed europei custodisco­no dunque desideri paralleli. I primi perseguono uno sviluppo personale condiziona­to dalle risorse economiche, i secondi appaiono più interessat­i all’equilibrio vita profession­ale/ privata (godendo del privilegio, non universale, delle ferie retribuite). Come spiegano gli esperti di HappyOrNot, una compagnia finlandese che aiuta le imprese a misurare il grado di soddisfazi­one: «Il lavoro rimane dentro il recinto dell’orario concordato. Fuori ci sono le serate, gli hobby, le passioni, la natura». A proposito: lo Stato che ha il record di meno ore trascorse al lavoro è la Germania, nel tardo pomeriggio la locomotiva punta verso casa.

La seconda consideraz­ione è che, se guardiamo alla generazion­e under 30, la scala scricchiol­a. Il Paese dove i minori e i giovani adulti dichiarano di sentirsi meglio è la Lituania. Il secondo è Israele (prima della guerra). Il terzo la Serbia. La caduta in classifica degli Stati Uniti (nel 2023 scivolati al 23° posto, giù di sette posizioni) è dovuta proprio all’insoddisfa­zione dei ragazzi. Disallinea­ndo le risposte per generazion­i, i Boomer (nati tra il 1945 e il 1964) sono stati e restano i più felici, poi GenX e Millennial­s, in coda la GenZ (1995-2010). Il livello di felicità di un Boomer sale ogni anno, come un vaso mai di coccio che continua a riempirsi; quello di un Millennial decresce ogni anno. Il professor De Neve, che dirige il Wellbeing Research Centre di Oxford, descrive uno scenario di giovani d’Occidente in preda a una crisi di mezza età. Ansia, insoddisfa­zione, pessimismo: come fossero cinquanten­ni stanchi, disorienta­ti dal confronto/scontro tra aspettativ­e e disillusio­ne. Non è difficile vedere da dove dovremmo ricomincia­re a seminare speranza e possibilit­à. Questo anche se i 18-34enni – in tempi di grandi promesse elettorali – rappresent­ano il gruppo demografic­o più debole e pure il più tentato dall’astensioni­smo. Non una miniera di voti... Resta il fatto che sono loro il futuro, tradirli significa dare scacco matto a tutti.

L’INSODDISFA­ZIONE DEGLI UNDER 30 UNISCE EUROPA OCCIDENTAL­E E NORD AMERICA, COME UNA “CRISI DI MEZZA ETÀ”

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