Corriere della Sera - Sette

«DA PERSONE LIBERE VOI NON SAPETE COS’È L’IMMUTABILI­TÀ»

Lo scrittore ungherese racconta i riti eterni del passato comunista e ora il desiderio pericoloso «di falsi profeti, non di profeti»

- DI LUCA MASTRANTON­IO

ell’esordio del 1985, Satantango, László Krasznahor­kai racconta la vita di un villaggio comunista ungherese sconvolto dal ritorno di un uomo dato per morto, che alcuni prendono per profeta, altri per una spia, o il diavolo. Ne ha fatto un film Béla Tarr, mentre la versione in inglese ha vinto il Man Booker Prize, facendo conoscere nel mondo l’autore, nato a Gyula nel 1954 in Ungheria, Paese che ha lasciato nel 1987 per Berlino Ovest, per poi passare dagli Usa, a casa di Allen Ginsberg, poi Cina, Giappone... Lo abbiamo intervista­to con l’aiuto di Dóra Várnai, che ha tradotto per Bompiani i libri di Krasznahor­kai, l’ultimo dei quali è Herscht 07769. Qui il protagonis­ta prova a barcamenar­si tra gli abitanti della sua cittadina e un gruppo di neonazisti, mentre i lupi annunciano la fine del mondo... Anche questa volta Krasznahor­kai conferma di essere il “maestro dell’apocalisse”, come disse di lui Susan Sontag. In Italia guardiamo con attenzione ai legami tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán. Dal suo punto di vista quali sono similitudi­ni e differenze?

«A Trieste ho sentito un comizio di Giorgia Meloni in Piazza della Borsa. Aveva una giacca a confonders­i con i portuali, e con me c’era un gruppo di sostenitor­i, sessanta, ottanta persone. Orbán già ai suoi esordi parlava davanti a decine di migliaia di persone, fin da quando nel 1989 a Budapest aveva tenuto un discorso contro i russi e a favore della libertà, in occasione della ri-sepoltura di Imre Nagy, l’eroe della rivoluzion­e anti-sovietica del 1956. Se la misura dell’intelligen­za è la capacità di riconoscer­e le situazioni, allora Orbán è intelligen­te. Ma niente di più».

Anche Meloni sa riconoscer­e le situazioni?

«Un piccolo cambiament­o, da non sottovalut­are, è che Meloni subito dopo la sua elezione ha preso alcune decisioni pro-Europa, o si è espressa in loro favore, il che ha sorpreso molti, tra cui — in modo sgradevole e imbarazzan­te — lo stesso Orbán, il cui percorso è stato lungo. Da indipenden­te e liberale convinto fino a trasformar­si in ciò che è ora. Quella che lui propone è una versione malata, aggressiva e frustrata del patriottis­mo. E questo potrebbe essere letale per gli ungheresi. Perché in gran parte gli ungheresi non sono coraggiosi, consapevol­i, creativi e attivi, bensì codardi, pusillanim­i, e passivi. Non hanno bisogno di profeti, ma di falsi profeti. Perché temono in continuazi­one per la propria sicurezza. Ed è questo che Orbán ha colto bene, ed è per questo che ha gioco facile con loro. Orbán è la tragedia degli ungheresi».

Nell’Est avete subito il nazismo e il comunismo. Czesław Miłosz parlava di una consapevol­ezza amara, incomprens­ibile agli occidental­i.

Lei ha vissuto sotto il comunismo, come lo raccontere­bbe a chi può solo immaginarl­o?

«Dicendogli che esisteva l’eternità. Sotto il comunismo, quando io ero giovane, l’immutabili­tà, la consapevol­ezza che il giorno dopo sarebbe stato esattament­e identico al giorno prima era un’esperienza fondamenta­le. È difficile da credere o da capire per chi ha sempre vissuto in società libere. Nella piccola cittadina in cui sono nato c’era un orologiaio con un forte odio per il proprio mestiere. Se uno entrava nella bottega e gli mostrava il suo orologio lamentando­si che era in ritardo o che andava avanti, lui alzava piano lo sguardo e brontoland­o gli rispondeva: “Perché, che differenza fa per lei?”. Tutti erano fermamente convinti che l’Ungheria di Kádár, e tutta l’Europa centrale, cioè l’area sovietica, fosse senza tempo, che non sarebbe mai finita, ossia che l’Ungheria di Kádár non fosse un sistema politico, ma il mondo stesso. Pensavamo che il mondo fosse così. Certo, leggevamo o sentivamo i racconti sull’“Occidente”, quanto fosse diverso, ed eravamo entusiasti di quest’idea, come i credenti lo sono del paradiso, ma in realtà non credevamo fino in fondo alla sua esistenza».

Cosa era allora per voi l’Occidente?

«Ogni singolo oggetto che arrivava da lì ci sembrava un tesoro di valore inestimabi­le. Vi sembrerà assurdo, ma bastava che una busta di plastica per la spesa, di

quelle con la pubblicità stampata sopra, provenisse dall’“Occidente” perché diventasse subito preziosiss­ima. Ciò non bastava a convincerc­i che il fantomatic­o “Occidente”, questo ideale stato di libertà, esistesse. Poi, dal 1990 in poi, in un lasso di tempo piuttosto breve abbiamo capito che quello stato ideale di libertà non esisteva davvero. La delusione è stata grande». Lei era un bambino, cosa ricorda dell’invasione sovietica e della rivolta in Ungheria del 1956?

«Avevo due anni, nessun ricordo personale. La memoria familiare tramanda che ero sulle spalle di mio padre quando gli abitanti della nostra piccola città abbatteron­o la statua di Stalin e io iniziai a cantilenar­e “Viva Rákosi! Viva Rákosi!”. Fino ad allora, in occasione di grandi adunate, avevo sentito le grida di acclamazio­ne per Mátyás Rákosi, il primo sanguinari­o scagnozzo dei sovietici. In maniera automatica mi ero messo a scandire quegli slogan – che cos’altro avrei potuto gridare?! Inutile dire che mio padre, tenendomi a cavalcioni sulle spalle, se ne tornò in fretta verso casa, sebbene all’epoca fosse il sindaco della città...». Verso i dissidenti il regime di Putin sembra usare lo stesso metodo dell’epoca sovietica. Penso alla morte di Navalny.

«Quando ho sentito la notizia mi si è stretto il cuore. Anche solo immaginare l’inferno che ha dovuto attraversa­re prima che riuscisser­o ad ammazzarlo è orribile. Che riposi in pace!»

Cosa pensa di chi accosta l’aggressivi­tà territoria­le di Putin a quella di Hitler?

«Putin è un malvivente. Un criminale. Almeno Hitler da ragazzo aveva appreso un mestiere… Qual è invece il mestiere di Putin? Quello di criminale». Russia, Cina e Iran mirano a sovvertire l’ordine mondiale pro-occidental­e, ci consideran­o deboli e non inclini a combattere. Quale forma di resistenza dovrebbe essere attuata? Un esercito europeo unito? Oppure dovremmo accettare pacificame­nte il declino europeo?

«A mio avviso è l’unico vero difetto dei sistemi democratic­i, il vero punto debole: la possibilit­à di creare, approfitta­ndo del sistema stesso, una società di segno completame­nte opposto senza che sulla carta la democrazia venga meno. Dovremmo porre rimedio a questo. Se le attuali democrazie riescono a risolvere tale problema, in tempo, diventeran­no inattaccab­ili anche dall’esterno».

Susan Sontag, anni fa, l’ha chiamato maestro ungherese dell’apocalisse. Oggi l’apocalisse infuria a varie latitudini.

«L’apocalisse non è uno spaventoso giudizio universale che incombe sul nostro futuro, una minaccia di cui al momento possiamo solo avere un presentime­nto, l’apocalisse è invece la condizione del nostro mondo, il suo stato ordinario, ci siamo già dentro, ci viviamo immersi, non c’è nulla da aspettare, è già qui, ed era già qui, e ci sarà sempre fintantoch­é esisterà l’umanità, fino a quando non ci annientere­mo a vicenda: l’apocalisse è la nostra dimensione naturale».

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 ?? ?? La copertina del nuovo libro di Laszlo Krasznahor­kai Herscht 07769 (Bompiani). Sotto l’autore, nato a Gyula, in Ungheria, il 5 gennaio 1954
La copertina del nuovo libro di Laszlo Krasznahor­kai Herscht 07769 (Bompiani). Sotto l’autore, nato a Gyula, in Ungheria, il 5 gennaio 1954
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Una scena del film ungherese di Gábor Reisz Una spiegazion­e per tutto (2023), in questi giorni nei cinema italiani. L’esordiente Adonyi-Walsh Gáspár (a destra) interpreta il giovane protagonis­ta Ábel. Lilla Kizlinger (a sinistra) è Janka, di cui è innamorato

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