IL CADAVERE DI MORO E LA GIBIGIANNA DI MARIO LUZI
Nell’anniversario della morte di Aldo Moro, mi è capitato di rileggere la poesia che Mario Luzi (1914-2005) dedicò alla foto del ritrovamento del cadavere dello statista, scattata da Rolando Fava (Ansa) in Via Caetani a Roma il 9 maggio 1978. Il testo, da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), colpisce subito con l’immagine di lui “acciambellato” nel bagagliaio della Renault 4 che diventa “stiva sconcia”. Alla fine, dopo la trasfigurazione poetica, mi ha sorpreso “gibigianna”, parola che ignoravo e, scopro, è termine dialettale lombardo, a indicare un baluginare improvviso, il lampo riflesso su una superficie lucida, come il metallo o il vetro. Nel 1980 il designer Achille Castiglioni chiamò così una lampada, in omaggio ai ricordi d’infanzia, quando i bimbi si divertivano a riflettere i raggi solari con un piccolo specchio, facendo la “gibigianna”, come veniva chiamato il gioco. Per attirare attenzione. O accecare. Come fanno i misteri d’Italia.
Acciambellato in quella sconcia stiva, crivellato da quei colpi, è lui, il capo di cinque governi, punto fisso o stratega di almeno dieci altri, la mente fina, il maestro sottile di metodica pazienza, esempio vero di essa anche spiritualmente: lui – come negarlo? – quell’abbiosciato sacco di già oscura carne fuori da ogni possibile rispondenza col suo passato e con i suoi disegni, fuori atrocemente – o ben dentro l’occhio di una qualche silenziosa lungimiranza – quale? non lascia tempo di avvistarla la superinseguita gibigianna.