Tadini, e la poesia generò l’artista
La guerra, l’epica dei vinti, la fede, la collettività. Con Eliot, Montale e Pound a fargli da guida
ino a ieri, l’Emilio Tadini poeta era, per il suo lettore, un vuoto in mezzo a due estremi cronologici piantati, in un terreno per altro fertilissimo, come paletti solitari: i Tre Poemetti del 1960 e L’insieme delle cose del 1991. Due estremi molto diversi tra loro. In mezzo, cinque romanzi, qualche testo teatrale, la saggistica, il giornalismo e soprattutto la pittura. Eppure, si sapeva — o per lo meno si poteva intuire — che per Tadini la poesia aveva una posizione cruciale nella sua vasta e variegata attività. Ora ne abbiamo la conferma, grazie alla cospicua raccolta di componimenti editi e (soprattutto) inediti realizzati tra gli anni Quaranta e i Sessanta ( Poemetti e poesie, a cura di Anna Modena, Fondazione Corriere della Sera).
Prima venne la poesia. E si direbbe quasi che quell’esperienza abbia avuto, per Tadini, un ruolo generativo di altre forme artistiche. L’esordio ha il crisma del prestigio, se è vero che La passione secondo Matteo, destinata a confluire nel trittico del primo libretto, ottiene nel ’47 il Premio Renato Serra grazie a una giuria composta da Eugenio Montale, Carlo Muscetta e Sergio Solmi. Il che gli vale la pubblicazione sul «Politecnico» di Vittorini.
Studente alla Cattolica (dove si iscrive anche spinto della profonda cultura religiosa del padre), ispirato agli ideali della sinistra cristiana, il giovanissimo Tadini aderisce, durante la guerra, al Fronte della gioventù. Michele Rago lo segnala subito, nella scheda di presentazione che compare sul «Politecnico», come una promessa della nuova poesia italiana, sottolineandone l’insolita e «vigorosa» chiave di interpretazione della realtà. Come ricorda Anna Modena, la poesia, per il ragazzo Emilio, «tra liceo e oscuramento, è una passione antica e immediatamente vitale, nata attorno alle esperienze scolastiche: l’Iliade e l’Odissea, il giornale di Troia che compilava da solo, il mito e la storia come materia di base; il senso dell’eroe, del tragico, del collettivo che si pongono subito come necessari e abiteranno per sempre nella sua poetica».
Mito, storia, eroe, tragico, senso della collettività: c’è davvero quasi tutto il Tadini delle origini e molto di quello posteriore, sia pure considerando la maggiore distanza (ironica e intellettuale) della maturità, che è propria anche della narrativa. Se i nuclei tematici degli inizi si coagulano nella guerra, nell’angoscia, nel senso di fragilità esistenziale e di partecipazione al dolore collettivo, la tendenza verso il poemetto più o meno narrativo che si rivelerà quasi subito vive una lunga gittata che arriva fino agli ultimi testi. Ed è una scelta tutto sommato piuttosto fuori del comune, in Italia, di ispirazione essenzialmente eliotiana. E con l’Eliot della Terra desolata (che cederà il passo a quello dei Mottetti) agisce visibilmente dentro la poetica di Tadini la lezione di Montale, a lungo masticata e digerita «nella sua volontà di penetrare un mondo in sfacelo e di verificarlo con asprezza fino in fondo» (sono parole sue).
Ma quello stesso senso di impotenza e di disgregazione che troviamo sia negli Ossi sia nelle Occasioni, in Tadini si fa costantemente plurale, e a un «io» variamente lirico si sostituisce un persistente «noi», desiderio di condivisione, di solidarietà e di messa in comune del trauma civile. Sin dai precocissimi esordi. «Li sentimmo adunarsi nella pianura/ vedemmo i lo-
Fro fuochi/ e già eravamo chiusi da ogni parte/ nella difesa delle mura»: così si apre la sezione iniziale del volume, Prime, in cui confluiscono sette componimenti inediti scritti probabilmente durante la guerra e alle quali, com’è normale, non sono estranee influenze ermetiche. Va segnalato che le carte, conservate nell’Archivio storico del «Corriere della Sera», spesso e volentieri prive di datazione, affidano la loro pur approssimativa collocazione cronologica a valutazioni materiali (la scrittura) o a criteri meramente interni (cioè di contenuto e di stile).
All’eccidio di partigiani consumato a Piazzale Loreto il 10 agosto 1944 è dedicato il poemetto in tre tempi I morti illimitati, dove la tragedia prende corpo nel contrasto ravvicinato e incandescente tra il noi (vivi) e il voi (vittime): «Con la fronte sull’alba siete morti/ conquistati dal martirio avete/ strappato tutti i nostri respiri». E dove i cadaveri ammucchiati diventano «altare» per i compagni nello scenario angosciante della città prostrata.
In una intervista dell’età matura, Tadini ricordava quanto fosse stato influenzato, in gioventù, oltre che da Eliot, dalla lettura di Pound e dalla «fusione di linguaggio alto e basso, di chiacchiere e di iperbole retorica che c’è nella poesia inglese di quegli anni»: fusione e contaminazione che, dirà, finiranno per agire anche nella pittura e nella prosa (dove si aggiunge la folgorazione per Faulkner). Queste stesse linee si esprimeranno nella raccolta tarda in una chiave di decisa denuncia sul presente, mentre qui rimangono più emotivamente calde e sensibili.
Tragedia senza redenzione, pietà e dolore collettivo per le vittime, mitologia sacra e forte ancoramento al reale (oggetti, corpi, carne, sangue) culminano nelle misure ancora più lunghe dei Tre Poemetti (oltre alla Passione, Storia di un soldato e L’oratorio della pace) dove al risentimento, sempre religiosamente sofferto, per la fine inevitabile e ingiusta (di Cristo come dell’amico soldato) si mescolano l’idea di un tempo irrimediabilmente «consumato», il senso di colpa di chi resta, visualizzato entro scenari notturni in contrasto con la luce di un’alba percepita sempre come portatrice di illusione. Sono temi e immagini di un’epica rovesciata (dalla parte dei vinti) che ritornano quasi ossessivamente, sempre più estenuati dal tono colloquiale dentro un verso lungo e lunghissimo: e a volte risolti in forma drammaturgica, dando voce alla giovanile passione teatrale di Tadini e anticipando moduli che verranno nei romanzi.
Più tardi, provvisoriamente sedato lo sguardo sulle atrocità, compariranno componimenti più sereni in cui la geografia familiare dell’amata valle del Po porta un senso pariniano di apparente equilibrio con la natura (sabbie, acque, fuochi, terre, erbe), reso però subito inquieto dal radicamento, sempre presente, in una storia scricchiolante se non decrepita (vedi la visita con la donna amata all’Abbazia di Viboldone e quella nella vecchia e piovosa Pavia che qui proponiamo).
In apparato, le Note di Anna Modena evidenziano bene, per specimina, il lavorio infinito cui vengono sottoposti i testi, un lavorio che qualche volta prosegue anche dopo la pubblicazione. «Diversamente che nella pittura, — diceva Tadini — nel disegnare come nello scrivere l’immagine si forma a poco a poco, con la fatica della matita e della gomma, e con continue cancellature di cui restano tracce visibili sul foglio».