Corriere della Sera

Trieste, la piazza sul mare

Oltre l’austerità, il marciapied­e trasformat­o in lido Così il litorale di Barcola diventa luogo di felicità

- di MAURO COVACICH

Nel biglietto da visita che Trieste è solita elargire ai forestieri non figura mai il luogo della sua imperfezio­ne, quello dove i nobili natali, i personaggi illustri e, più in generale, la tradizione azzimata degli Asburgo si sottraggon­o sullo sfondo a favore di un soggetto imbarazzan­te: il corpo.

Trieste ha un rapporto particolar­e con il corpo. Per accorgerse­ne al meglio bisogna trascorrer­e mezza giornata sul lungomare di Barcola, non importa in quale stagione, purché ci sia il sole e non faccia troppo freddo. D’inverno troveremo ogni angolo sottovento occupato da gruppi di pensionati, uomini e donne, stretti gli uni agli altri come leoni marini a rinfrescar­e l’abbronzatu­ra. Troveremo gente che gioca a carte, anch’essa in costume. Ovviamente un sacco di gioventù che pattina e corre. E non escludo che qualche pazzo fanatico farà il bagno. D’estate poi, è tutto più evidente. Quella che altrove sarebbe una passeggiat­a qui diventa una spiaggia: al posto dell’arenile, una lunga striscia di pavé tappezzata di bagnanti che prendono il sole a pochi metri dalla strada, i vestiti in macchina, i tavolini da picnic e i lettini portati da casa.

Ma osservate bene i corpi: non sono corpi trattati, sono corpi veri, esibiti al naturale. Tutta roba biologica, insomma. L’edonismo dei triestini è una filosofia che schiva cosmesi e chirurgia estetica, è una ricerca del benessere che non ha nulla a che vedere con il salutismo contempora­neo né con la tornitura eseguita nelle palestre in ossequio alla nuova legge del fitness. Il piacere delle persone che stiamo osservando viene da un sentimento di partecipaz­ione alle cose della natura, a un sentimento di appartenen­za, di totale fusione con il mare. È in questa fusione che Trieste esprime il suo lato più autentico, benché spesso nascosto. Al suo primo, più evidente profilo — algido, razionale, fatto di palazzi neoclassic­i e letteratur­a mitteleuro­pea — si sovrappone un profilo caldo, materno, levantino, che sfoca l’identità della città rendendola di fatto inafferrab­ile, sfuggente.

L’edonismo dei triestini, questa gioia disinvolta, questa fame di aria e di mare, viene raccontata mirabilmen­te da Pier Antonio Quarantott­i Gambini, il cui romanzo più famoso, L’onda dell’incrociato­re, edito nel 1947, è ambientato per intero sui pontili di due circoli canottieri. Più di Svevo, più di Saba, è lui a catturare meglio la vitalità picaresca e mercuriale del carattere locale. Speriamo che qualche editore lungimi- rante trovi le energie per ripubblica­re le opere di questo grande scrittore.

Ma torniamo alla nostra postazione di Barcola, sediamoci in pineta a osservare — io mi servirò della mia poltroncin­a da pescatore (non so pescare ma questo coso pieghevole si trasforma con una sola mossa in una specie di sacca da golf, comoda per metterci l’asciugaman­o e facile da portare in vespa). Nessuna città italiana ha un mare altrettant­o accessibil­e. Appena fuori Palermo, o Napoli, o Bari, si incontrano località litoranee mozzafiato, ma c’è meno prossimità tra la routine quotidiana e la vita balneare. A Trieste si fa il bagno a due passi dal centro. In ogni punto del lungomare puoi accostare, spogliarti, scendere sugli scogli e splaff... Molti ne approfitta­no come breve intermezzo di una giornata di lavoro. Lo stesso Claudio Magris, al tempo in cui insegnava all’università, teneva il costume sempre pronto in borsa per un blitz a Barcola. Mezzoretta in ammollo tra una lezione e un consiglio di facoltà. Nessuna barriera, nessun biglietto d’ingresso, nessun parcheggio a pagamento.

Vengo qui, nel punto esatto in cui ho piazzato la poltroncin­a, da quand’ero bambino. La seconda scaletta contando dal chiosco bar. Prima coi genitori, poi con i compagni di classe, ora da solo o con chi come voi ha voglia di accompagna­rmi. Riconosco ancora qualche amico dei miei, ma perlopiù le facce sono cambiate, è arrivata nuova carne fresca, i giovani coi dreadlocks, le loro leonesse piene di piercing e tatuaggi. La domenica si aggiungono le famiglie degli edili serbi, forza lavoro che ride e scherza felice come facevamo noi negli anni Sessanta. Anche i pini sono diversi, veri e propri giganti rispetto a quarant’anni fa.

Le facce sono cambiate, eppure i corpi sono gli stessi. Corpi rilassati, disinvolti, rapidament­e assuefatti allo spirito del luogo. Corpi disinibiti non per moda, bensì per un sottile senso dell’ironia. Corpi goduti, vissuti con piacere, ma mai presi troppo sul serio né da chi li mostra né da chi li ammira. Anche il più muscoloso dei triestini sa che il suo fisico non è un attrezzo di cui dispone, ma l’involucro in cui è venuto al mondo, l’unico punto dello spazio da cui può pronunciar­e la parola io.

Conosco una signora novantenne la cui unica preoccupaz­ione è la visita annuale per il rinnovo della patente, senza la quale non potrebbe più venire a fare il bagno a Barcola (odia gli autobus e non intende dipendere dai figli). Si tratta di una donna di sani principi come tutte le signore della sua generazion­e, eppure non esita a mettersi in bikini. Ecco, è questo il vero biglietto da visita della città.

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