Corriere della Sera

Un nuovo modello di crescita: meno finanza e più società

- MAURO MAGATTI

Il tema della crescita è, ormai da molti mesi, al centro del dibattito. Mentre, infatti, c’è un ampio consenso attorno all’idea che un ciclo storico sia terminato, assai minore è la convergenz­a attorno alle linee dello sviluppo futuro. La questione nasce dal fatto che la crisi in corso rimette in discussion­e la natura del processo di accumulazi­one — che è il modo attraverso cui il capitalism­o, allargando la propria base produttiva, crea le condizioni per la crescita. Anche se, nel corso del tempo, le soluzioni adottate per ottenere tale risultato sono state diverse, la linea evolutiva appare sufficient­emente chiara: diventando «mature», le nostre società sono sempre più profondame­nte implicate nello sforzo di creazione di valore. È almeno dal Dopoguerra, dall’avvento cioè della stagione keynesiana, che il processo di accumulazi­one — coinvolgen­do nuovi strati sociali e mobilitand­o la spesa pubblica — ha decisament­e virato verso una progressiv­a «socializza­zione». Una tendenza che ha trovato pieno dispiegame­nto nella società dei consumi, dove la logica capitalist­ica si generalizz­a alla totalità del sociale: da quel momento in avanti è l’aumento dei consumi individual­i a trainare la crescita dei mercati. I limiti di quella soluzione, però, sono stati raggiunti più velocement­e del previsto. Già negli anni 70, nei Paesi anglosasso­ni si coglie che le possibilit­à sono, per questa via, limitate. Ed è a questo punto che entra in scena l’ultima fase, quella che ci ha portato alla crisi in corso, nella quale la finanziari­zzazione — associata alla deregulati­on globale — è diventata l’elemento cardine di una nuova stagione di accumulazi­one: come ci risulta oggi meglio comprensib­ile, l’espansione finanziari­a — che ha comunque portato con sé maggiore efficienza e aperto nuovi mercati su scala planetaria — è diventata il motore del processo di creazione del valore. Una soluzione che, se ha avuto il merito di accelerare tale processo — dando vita ad una fase di crescita economica globale molto rapida — lo ha dall’altro indebolito proprio nel suo radicament­o sociale. In fondo, l’economia poteva crescere a prescinder­e dalla società. La questione della crescita — e dunque della natura della accumulazi­one — torna a porsi nel momento in cui quella condizione di espansione illimitata, per sole linee esterne, si complica. E si complica per una ragione di fondo, e cioè la (ri)scoperta del fatto che un sistema esteso e complesso di promesse di pagamento (quale è il sistema finanziari­o) si può reggere solo su ordini politici (cioè istituiti e, come tali, limitati) che ne garantisca­no la solvibilit­à in ultima istanza. Ciò spiega come mai proprio l’Europa, unita dalla moneta unica ma priva di un sistema politico sovrano, si ritrovi da mesi nell’occhio del ciclone. Per questo, nelle nuove condizioni ci si pone la domanda: è ancora sensatamen­te possibile pensare che la mera espansione finanziari­a possa costituire la via principale dell’accumulazi­one capitalist­ica? Se si risponde di no, come credo che oggi si debba fare, e se si non si prende la strada sbagliata della decrescita, ecco allora che è doveroso interrogar­si sulla nuova logica di ampliament­o della base produttiva, o meglio di creazione del valore, che potrà affermare nei prossimi anni. Nel nuovo quadro che si va formando, non solo sarà più difficile e controvers­o avere accesso alle consistent­i opportunit­à di profitto ancora disponibil­i a livello mondiale, ma soprattutt­o non le si potrà più assumere come necessaria­mente in crescita. Per compensare tali difficoltà, il nuovo ciclo di accumulazi­one dovrà investire, ancora più massicciam­ente di quanto non sia già accaduto, sulla propria base cognitiva. E ciò per almeno due ragioni. La prima è che, all’interno di un pianeta sempre più unificato da un sistema tecnico-economico planetario, il confronto sarà ancora più stringente rispetto ai livelli di efficienza e di innovazion­e. La seconda è che, soprattutt­o nelle società mature, la conoscenza costituirà un fattore decisivo per allargare le opportunit­à di mercato. Tuttavia, questa prima dimensione, da sola, non sarà sufficient­e. Sia perché costosa, sia perché relativame­nte incerta. Un contributo ugualmente importante dovrà venire anche da nuove forme di «accumulazi­one sociale e culturale», dove con tale espression­e si intende la cura dei luoghi e delle persone che sono il patrimonio di intelligen­za e creatività da cui si può sprigionar­e quel nuovo valore di cui le società avanzate sono alla ricerca. In un mondo sempre più integrato sul piano tecnico-economico, al di là di una certa soglia cognitiva, a fare la differenza — come sempre insegnano Amartya Sen e Martha Nussbaum — sarà il differenzi­ale derivante dalla qualità delle persone, dei luoghi, delle istituzion­i. In questo senso, l’economia tornerà a legarsi alla società: la nuova stagione dell’accumulazi­one dipenderà più decisament­e dalla capacità di produzione di valore sociale, che altro non è che un sistema di priorità: fare di più con meno eliminando gli sperperi e le rendite; includere e integrare la dimensione sociale in contesti a crescente complessit­à umana; valorizzar­e lo spirito di iniziativa e le capacità individual­i, oltre che la bellezza e l’efficienza di contesto. La buona notizia è che tutto ciò porterà con sé un nuovo modello di crescita che promette di essere migliore di quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Naturalmen­te a condizione che si capisca di che cosa si sta parlando e che si costruisca un consenso attorno a ciò che fonda il futuro di una società di questo tipo: centralità della scuola e della università, della conoscenza e della cultura, dell’intrapresa e dell’investimen­to, della collaboraz­ione e della cooperazio­ne.

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