Ma cosa c’entra Togliatti con il Pd?
C’è stato un tempo, lontano, in cui commemorando sull’Unità Palmiro Togliatti, morto a Yalta il 21 agosto del 1964, si poteva anche aprire un caso politico. Levandosi a difensori della lezione togliattiana contro le distorsioni cui sarebbe stata soggetta. Oppure, tutto al contrario, invocandone l’immediata archiviazione. Nell’agosto del 1981, Giorgio Napolitano citò a lungo il Togliatti che aveva insegnato ai comunisti a tenere ben distinta la politica dalla propaganda: fu grazie a quell’articolo («formalmente dedicato alla ricorrenza, sostanzialmente polemico con le recenti affermazioni di Berlinguer», scriverà ventiquattro anni dopo nella sua autobiografia) che l’opinione pubblica e la gran parte dei militanti comunisti seppero quanto aspro fosse ormai il contrasto che lo opponeva al segretario generale del partito. Nell’agosto del 1989, pochi mesi prima della caduta del Muro e della svolta di Achille Occhetto, fu il filosofo Biagio de Giovanni, anche lui migliorista, e migliorista radicale, a suscitare un pandemonio con uno scritto il cui titolo era già tutto un programma: «Addio a Togliatti e al socialismo reale».
Cose dell’altro ieri, interessanti solo per gli appassionati della storia italiana del Novecento? Sì, ma, a quanto pare, mica tanto. Pochi giorni fa l’Unità ha pensato bene di tornare sulla lezione del Migliore. «L’officina Togliatti, la sua eredità e il Pd», è il titolo dell’articolo di Michele Prospero, che non si limita a rilevare, da storico della politica, come e perché «senza i suoi arnesi», e in primo luogo senza il suo «realismo alla Cavour», il comunismo italiano sarebbe stato condannato al destino di un movimento marginale. Di più, molto di più: se «un nucleo parziale ma inconfondibile» della sinistra storica «si rintraccia ancora una volta nell’esperienza del Pd», lo si deve proprio «alle mille vite di una creatura (il partito togliattiano, ndr) che nel Dopoguerra è diventata qualcosa di così profondo e sostanziale nel sentire collettivo che non è possibile trascendere e rimuovere neanche volendolo». Guai, dunque, se il Pd, «magari in ossequio a coloro che vorrebbero eliminare il contributo dei comunisti italiani non solo dal patrimonio culturale dei democratici di oggi, ma dall’intera storia nazionale», rinunciasse a scavare in questa «miniera ancora attiva di passione civile».
Altro che l’ «addio a Togliatti» invocato ventitrè anni fa, per il partito postcomunista allora ancora in difficile gestazione, da de Giovanni : per il cavourriano Togliatti (che, se è per questo, in piena guerra fredda invocò anche un nuovo Giolitti), Prospero chiede un posto d’onore nell’ipotetico Pantheon, tuttora sfortunatamente sguarnito, del Partito democratico, in quel Pantheon in cui Walter Veltroni, per dire, tutti avrebbe voluto, da Norberto Bobbio a Don Milani, fuorché il Migliore (e Pietro Nenni). Solo la provocazione solitaria e fuori tempo di un intellettuale? In un partito in tutt’altre faccende affaccendato, almeno uno, l’infaticabile Arturo Parisi, non la pensa così. E scrive anche lui un articolo sull’Unità per sostenere che «Togliatti non fa parte del Pd», o meglio, non dovrebbe farne parte se il Pd «aperto a tutti», negli anni della segreteria di Pier Luigi Bersani, non fosse finito, per trasformarsi in un partito in cui «l’organizzazione, la struttura di comando e l’identità» si formano a partire dalla storia e dall’identità del passato. Così come ha sempre teorizzato Massimo D’Alema, che non si è mai stancato di ripetere che i partiti non si inventano.
La polemica, con ogni probabili- tà, è destinata a finire qui, come spesso capita alle guerricciole ideologiche estive. Ma, a suo modo, in una stagione di accentuata afasia politica e intellettuale, è interessante e la dice lunga lo stesso, questo tentativo fuori tempo massimo di far tornare a lievitare il confronto (e magari lo scontro) politico sul passato prossimo e remoto accuratamente glissato, a sinistra e nel centrosinistra, quando a tanti parve più utile e conveniente (con i risultati che si sono visti) presentarsi nei panni dei figli di nessuno. Non è dato sapere su che cosa effettivamente si stia litigando. Capita. Ma forse è per questo che i lettori dell’Unità, nel volgere di pochi giorni, si sono visti proporre come nonno, se non come padre, del Pd, prima Alcide De Gasperi da Marco Follini, poi Palmiro Togliatti da Michele Prospero («una storia di carri funebri che si sorpassano grottescamente su un’autostrada sperduta», ha scritto sul Fatto Andrea Scanzi). E forse è per questo che solo al comunista Guido Liguori, sul Manifesto, è venuto in mente di porre la domanda più giusta e persino più scontata: scusate, ma che cosa c’entrano Togliatti e il suo partito con il Pd?