Ghizzoni: nuovo patto tra banche e imprese
«Più capitale e aggregazioni per le aziende, così scende anche il costo del debito»
Federico Ghizzoni è un banchiere pratico: «Tutti i miei pranzi da qui a Natale sono impegnati con imprenditori. Mi piace in-contrarei clienti, visitare le aziende. E le imprese più solide cominciano a ragionare di acquisto di quote di mercato o di politiche commerciali, segno che qualcuno già si vede oltre la crisi. Un atteggiamento che noto da ottobre-novembre. Ma non bisogna farsi illusioni». Alle imprese l’amministratore delegato di Unicredit propone un cambio culturale e un patto: conosciamoci meglio per potere, le imprese, ottenere credito a costi più bassi e, le banche, conservare più capitale.
Su quali basi va costruito questo patto?
«Gli imprenditori devono capire, e lo stanno progressivamente facendo, che va messo più capitale nelle imprese, che vanno aggregate le realtà per creare medie imprese robuste: perché più capitale hai, più alto è il tuo rating e meno ti costa il finanziamento. Una banca come la nostra ha il dovere di far crescere le aziende. In Italia abbiamo distretti forti e aziende deboli. Unicredit ha tra i propri clienti large corporate 150 aziende in Italia, 300 in Austria e quasi 900 in Germania. E in Germania in generale ci sono decine di aziende classificate medie con fatturato superiore al miliardo. Perché non possiamo sperare di avere anche noi imprese di questo tipo?».
Bene. E le banche che devono fare, se non prestare il denaro che invece manca?
«La banca deve superare la sola logica del rating imposto da Basilea e conoscere meglio il cliente, incrociare le informazioni che ha su di lui — i suoi fornitori, i suoi movimenti — così da potergli fornire il credito tagliato su misura e che alla banca costi di meno in termini di assorbimento di capitale. Trasformare la vendita di un prodotto finanziario nella vendita di un servizio. Ripensarsi. Abbiamo ridefinito profondamente il modello organizzativo della banca in maniera più semplice e vicina al cliente. Ma intanto guardiamo anche al futuro. Noi abbiamo messo in piedi un laboratorio di giovani che riportano direttamente a me e che pensano nuovi modelli di banca e nuovi servizi. Abbiamo anche un brevetto, un sistema di pagamento che riconosce la persona non dalle impronte digitali ma dalla conformazione del palmo della mano. Sto anche pensando ad assumere 2-300 giovani proprio per abbassare l’età media dei dipendenti».
La nuova organizzazione in Italia aiuterà a fare credito migliore?
«Abbiamo dato tutta la responsabilità al country chairman Gabriele Piccini e ai sette direttori regionali. E abbiamo messo accanto i colleghi che assegnano i crediti a quelli che fanno il business, per far prendere assieme la maggior parte delle decisioni».
Ma le banche sono piene di crediti deteriorati.
«È successo per la crisi ma an- che perché abbiamo dato credito sbagliato proprio perché non conoscevamo bene il cliente. Magari non gli serviva un prestito a breve ma a medio termine, oppure non un chirografo ma un leasing. Ma è stato il concetto del rating che ha portato la banca ad assumere più rischi, perché non gli faceva più conoscere il cliente. E poi in Italia c’è stato un eccesso di credito». In che senso? «L’85% delle necessità finanziarie delle imprese sono state fornite dalle banche, contro una media europea del 65%. In Usa siamo al 25-30%, il resto è capital market ed equity. Per questo le società devono essere ricapitalizzate. Gli strumenti ci sono: corporate bond, i mini-bond, i project bond. Sapete che noi siamo diventati secondi in Europa nel debt capital market, dopo Bnp? Era a questo che pensavamo quando abbiamo ristrutturato l’investment banking. Ma poi c’è anche meno liquidità. E quella che c’è, con Basilea 3 costerà di più».
Dunque il problema sono le nuove regole di Basilea 3?
«Ma io non ho paura di Basilea 3. Ho il problema della certez- za delle regole, che oggi manca ed è grave. Non sappiamo ancora se il 1˚ gennaio Basilea 3 entrerà in vigore. Gli Usa non la applicheranno; in Europa c’è ancora diversità di opinioni. Poi: a noi ci hanno considerato banca sistemica e ci hanno chiesto di avere il 9% di patrimonio. E oggi siamo tra le banche commerciali più capitalizzate. Siamo a posto? No, perché ora si parla di valutarci come banca sistematica nei singoli Paesi. E poi accusano le banche di non fare credito: ma come si fa se non si conoscono le regole che ci verranno richieste su capitale e gestione della liquidità?»
La liquidità, come quella che avete in Germania e non riuscite a usare fuori dai confini tedeschi.
«Per questo sono per l’Unione bancaria: perché avrà criteri di valutazione uguali per tutti e affiderà a un solo regolatore europeo anziché ai tanti nazionali l’intera gestione della circolazione di liquidità in Europa».
In Italia lei deve anche tenere conto dei soci. Le fondazioni emiliane sono tornate a chiedere di creare la banca italiana.
«Ribadisco che non è all’ordi- ne del giorno e non può essere una priorità. Come ha detto di recente Roberto Nicastro, in Italia come risultato operativo lordo ci siamo, sul fronte dei depositi andiamo bene, c’è stata una stabilizzazione delle erogazioni ma c’è sempre il problema del costo del rischio».
In Italia c’è anche la vostra principale partecipazione, Mediobanca: quale strategia per Piazzetta Cuccia nel futuro?
«Non voglio entrare nel piano. Mediobanca sta ridisegnando il core business, sa che non può fare tutto, deve scegliere dove essere eccellente, e sta discutendo sulle partecipate. La linea del management è condivisibile. Mediobanca ha un patrimonio di know how e conoscenze nel corporate e nell’advisory che pochi hanno, e può usarlo anche fuori dai confini italiani». Ha letto il libro di Geronzi? «Non mi stimola particolarmente, forse lo leggerò in vacanza. A me piace leggere saggistica, i libri di storia. Il modo in cui si faceva banca vent’anni fa non è più attuale. Bisogna sapere accettare la competizione globale senza arroccarsi in situazioni domestiche e difensive».
Come andrà il 2013?
«Non bene fino a metà anno, nel secondo trimestre avremo un segno "meno" più piccolo del primo. Il terzo e il quarto trimestre saranno leggermente positivi ma non tanto da far chiudere in crescita. Stimiamo -0,4% a fine 2013 dopo il -2,5% di quest’anno. Ma serve anche un governo stabile in Italia, e allora lo spread potrà scendere di 100 punti. Ci aveva messo sei mesi a scendere di 50 punti e appena si è parlato di crisi di governo ci ha messo un attimo a recuperarne 30. Se scendessimo a 250 punti, in due-tre mesi la riduzione si noterebbe anche nei crediti».