Corriere della Sera

Le dimissioni del premier Il voto anticipato a febbraio

Monti lascerà dopo la legge di Stabilità. Le accuse ad Alfano

- Marzio Breda

ROMA — Non servirà alcun voto sul governo. Non più. Mario Monti ha deciso di lasciare. Senza traccheggi­amenti e senza lasciarsi ricattare, «impallinar­e», da negoziati paralizzan­ti con i partiti. Infatti, come spiega lui stesso, «la dichiarazi­one resa in Parlamento dal segretario del Pdl, Angelino Alfano, costituisc­e, nella sostanza, un giudizio di categorica sfiduc i a nei c onfronti del governo e della sua linea di azione». Una sconfessio­ne insopporta­bile. Per cui si dimetterà, insomma. Anche perché — spiega una fonte di Palazzo Chigi — «non poteva accettare che si dicesse che, sotto la sua gestione, il debito è salito, così come la disoccupaz­ione, le tasse, l’inflazione... accusando il governo di aver fatto nel contempo diminuire la crescita e i consumi».

Prima di lasciare, comunque presto, «accerterà se le forze politiche che non intendono assumersi la responsabi­lità di provocare l’esercizio provvisori­o — rendendo ancora più gravi le conseguenz­e di una crisi di governo, anche a livello europeo — siano pronte a concorrere all’approvazio­ne in tempi brevi delle leggi di stabilità e bilancio...».

È questo il bilancio della ricognizio­ne di due giorni compiuta da Giorgio Napolitano per pilotare la crisi verso una conclusion­e «ordinata e non convulsa» della legislatur­a. Il premier, salito al Quirinale per sentire «l’esito dei colloqui» avuti dal presidente della Repubblica con le forze politiche che avevano sostenuto il governo fin dall’inizio», è drastico. Prende lui l’iniziativa e annuncia il proprio passo indietro.

Uno scatto di nervi? Un’impuntatur­a che nasce da un orgoglio ferito? Ci sono forse anche queste motivazion­i psicologic­he, a spiegare la sua scelta. Questioni di dignità, in- somma. Ma è più logico pensare che un uomo come Monti, educato al realismo e al senso dello Stato, davanti al pesantissi­mo attacco mossogli dal Pdl non abbia voluto lasciarsi delegittim­are. Dunque chiuderà la partita portando in Parlamento la legge di Stabilità (senza la quale il Paese sarebbe costretto all’esercizio provvisori­o di bilancio, con conseguenz­e devastanti sul piano internazio­nale) e poi abbandoner­à il campo.

Ne ha discusso a lungo con Napolitano, venerdì al telefono da Milano e ieri sera, di ritorno dal vertice di Cannes. Concordand­o assieme a lui l’annuncio che è caduto come una bomba sui palazzi del potere romano.

A scanso di equivoci, per sgombrare cioè le voci di un incontro-scontro che in realtà non c’è stato, il Quirinale ha sentito il bisogno di precisare, attraverso una nota successiva, che «da parte del presidente della Repubblica c’è una doverosa presa d’atto e comprensio­ne per le sue motivazion­i». Comprensio­ne scontata, del resto, visto che Napolitano è stato l’inventore (e il lord protettore) del governo tecnico e della sua missione per ridare all’Italia una salda credibilit­à in Europa.

Ora, con questo passo tutto torna in gioco. Compresa la possibilit­à di un «anticipo sull’anticipo», rispetto ai tempi per chiudere la legislatur­a e andare al voto. Fino a ieri l’ipotesi più accreditat­a era per un’apertura delle urne il 10 e l’11 marzo. Vale a dire che ci sarebbe stato forse modo di approvare — così si sperava — oltre alla legge di Stabilità, qualche altro provvedime­nto ritenuto cruciale e ormai a fine corsa in Parlamento. Le elezioni a ridosso della primavera avevano tuttavia alcune controindi­cazioni: 1) avrebbero consentito al Pdl (e ad altri) di martellare per tre mesi l’opinione pubblica sul lavoro compiuto dall’esecutivo tecnico, magari riesumando pericolosa­mente anche slogan antieurope­i; 2) avrebbero esasperato il disagio del Pd, che si era proclamato leale al governo, ma che avrebbe pagato un prezzo elettoralm­ente pesantissi­mo e logorante per il suo sostegno.

Uno scenario che adesso è di colpo cambiato. Tanto che si ipotizza di imprimere una forte accelerazi­one alla legge di Stabilità, ritenendo possibile portarla in aula e approvarla addirittur­a nell’arco di cinque o sei giorni, cosa mai accaduta sinora, per consentire a Napolitano di congedare le Camere tra Natale e Capodanno e rendere così possibile le elezioni politiche già a febbraio. Diciamo il 24 e 25 o forse perfino una settimana prima.

Certo, questo significhe­rebbe lasciare per strada la riforma elettorale (alla quale comunque nessuno credeva più, per opposte convenienz­e) e altri provvedime­nti che avrebbero perfeziona­to l’opera dell’esecutivo e dato un senso ai duri sforzi compiuti nell’ultimo anno dai cittadini italiani.

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Capo dello Stato Napolitano in visita al Campidogli­o. Ieri il summit con Monti

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