«Troppi interventi in ritardo dei giudici Servono più arresti»
ROMA — «Il vero problema riguarda quello che accade tra il momento della denuncia e l’intervento del magistrato. Perché spesso i giudici non prendono provvedimenti oppure lo fanno con un ritardo che a volte può essere fatale». Mariacarla Bocchino è il direttore della Divisione Analisi del Servizio centrale operativo della polizia. Le procedure e i percorsi dell’indagine sugli atti persecutori le conosce perfettamente. E non può negare quanto gravi siano le carenze nella risposta, quando una donna implora aiuto. Proprio come è accaduto a Lisa Puzzoli, la giovane uccisa ieri ad appena 22 anni. Aveva presentato tre denunce contro il suo ex fidanzato. Ma non era successo nulla. Non è l’unica. Dottoressa, come è possibile? «Purtroppo anche se le denunce sono precise e circostanziate, la scelta di intervento è affidata alla discrezionalità del magistrato. Il numero di casi da esaminare è molto alto, per questo stiamo sollecitando i responsabili dei distretti a nominare pool di pubblici ministeri "dedicati"». Invece adesso che cosa accade? «Ci si affida al pubblico ministero di turno che spesso si occupa di altre specializzazioni e tratta il caso allo stesso modo di una rapina o un incidente stradale. Abbiamo chiesto al ministero della Giustizia di intervenire affinché non sia vanificato il nostro lavoro». Avete ottenuto risultati? «Il percorso è avviato, non sarà breve. Invece bisognerebbe sfruttare al massimo gli strumenti della legge che possono essere molto efficaci. E soprattutto bisognerebbe intervenire con maggior decisione».
Per esempio facendo scattare la custodia cautelare in carcere per il persecutore?
«Esatto. Invece per questo tipo di reati avviene raramente. Quando addirittura non si arriva al paradosso di concedere gli arresti domiciliari. In alcuni casi siamo stati costretti ad allontanare la vittima e i figli perché il giudice aveva disposto l’arresto nell’abitazione familiare».
Esistono uffici giudiziari «affidabili»?
«A Roma il pool è stato costituito. In generale posso dire che le città più piccole sono quelle più sprovvedute. Sicuramente al Centro-Nord c’è maggiore difficoltà ad ottenere l’arresto degli autori, probabilmente perché si tratta di aree più tranquille dove c’è una maggiore percezione di sicurezza».
Però lo stalker è uguale in ogni parte dell’Italia.
«Nelle Procure del Sud, a Napoli in particolare, c’è molta rispondenza tra l’attività delle forze dell’ordine e quella della magistratura. Sono vicende sempre molto delicate, il fatto che la vittima ottenga risposte è fondamentale. È importante che non si scoraggi». C’è ancora molta paura di denunciare, soprattutto quando il persecutore è il marito oppure il convivente. Lei crede che la legge offra davvero protezione alle donne?
«Le norme sono buone, bisogna applicarle. Per esempio l’ammonimento. È un atto amministrativo che viene emesso dal questore al termine di una veloce istruttoria e può essere molto efficace perché non ha le conseguenze della querela, ma si è rivelato un ottimo deterrente». Quali conseguenze ha? «Nel caso di recidiva, la denuncia scatta automaticamente. Se la vittima chiede aiuto ma poi rifiuta di presentare la querela si procede d’ufficio. Posso dire che soltanto nel 18 per cento dei casi siamo intervenuti per la seconda volta». Che cos’altro manca? «È fondamentale che i magistrati dispongano tutti quei provvedimenti — divieto di contatto, obbligo di allontanamento dalla casa familiare, divieto di avvicinarsi al luogo di lavoro — che servono davvero a proteggere le vittime».
fsarzanini@corriere.it