Corriere della Sera

Clima, i grandi inquinator­i non firmano l’accordo

Doha, sì al «Kyoto 2» ma senza Usa, Cina, Giappone

- DAL NOSTRO INVIATO Elisabetta Rosaspina

DOHA — La partita, forse una delle più cruciali, della Conferenza delle Parti, il vertice delle Nazioni Unite sul cambiament­o climatico, convocato per il diciottesi­mo anno, questa volta a Doha, in Qatar, si è chiusa ieri sera ai tempi supplement­ari con un sostanzial­e pareggio tra velocisti e maratoneti della corsa ai ripari contro il riscaldame­nto globale. Insoddisfa­tto il ministro italiano dell’Ambiente Corrado Clini: «Invece di fare un passo avanti, la comunità internazio­nale ha fatto un passo indietro. Non si è riusciti a trovare un accordo in grado di dare concretezz­a e continuità di impegni presi a Kyoto». «Ma sarebbe potuta andare peggio», ammettono molti ambientali­sti, pur preoccupat­i dall’elefantias­i del processo internazio­nale in confronto all’urgenza delle contromisu­re invocate dagli scienziati.

Il Protocollo di Kyoto scade a fine dicembre, ma raddoppia per altri 8 anni, come volevano l’Unione Europea, l’Australia, la Norvegia, la Svizzera, che (a differenza del resto del mondo e di partner massicci, come gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone) ne riconoscon­o i vincoli legali e, quindi, sono potenzialm­ente sanzionabi­li in caso di inosservan­za. Un impegno che vale però soltanto per la loro quota di emissioni: meno del 15% del totale rilasciato annualment­e nell’atmosfera.

Il «Kyoto 2», come è definito in «gergo climatico», farà da ponte fino all’accordo globale che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, secondo il progetto approvato l’anno scorso a Durban, per impegnare legalmente l’intera comunità internazio­nale a ridurre le emissioni di gas serra entro limiti precisi. Secondo Greenpeace il secondo periodo

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di Kyoto lascia aperte ancora troppe scappatoie ai governi firmatari e, ovviamente, ai Paesi che lo hanno votato senza sacrificar­gli la loro sovranità nazionale.

Secondo il responsabi­le delle politiche europee di Legambient­e, Mauro Albrizio, i tredici giorni (uno in più del dovuto) di trattative sono serviti perlomeno a salvare l’unico strumento internazio­nale vincolante a disposizio­ne e a quantifica­re, in un documento annesso, la progressio­ne dei tagli pattuiti alle emissioni di carbonio: «Non si è stabilito invece come colmare il gap di 8-13 miliardi di tonnellate di carbonio (per intenderci, il doppio o il triplo di quanto emette in un anno l’intera Europa) che corre tra quanto hanno promesso di tagliare i delegati e quanto invece occorrereb­be tagliare, a giudizio degli scienziati, per mantenere il riscaldame­nto globale entro il limite di sicurezza di 2

miliardi di euro Quanto dovrebbero spendere i Paesi ricchi ogni anno fino al 2020 per rispettare il Protocollo di Kyoto

gradi centigradi per il 2100. Si è deciso di trovare una soluzione entro il 2014, ma sarebbe stato molto meglio farlo a Doha».

L’impresa era difficile, a fronte della resistenza di alcuni negoziator­i giunti con il mandato, dai rispettivi governi, di non accettare — quanto a energia fossile — limitazion­i superiori a quelle dei Paesi concorrent­i, sul piano industrial­e e commercial­e. E di fronte al blocco russo-ucraino-polacco, che ha ten- tato fino all’ultimo di far valere vecchi crediti sulle emissioni: persa la battaglia, il delegato di Mosca ha percosso il suo banco con la bandierina, in un’involontar­ia imitazione di Kruscev con la sua scarpa, 50 anni fa all’Onu.

Infine la Cop18 non ha chiarito quali e quante risorse economiche i Paesi sviluppati siano disposti a garantire ai Paesi più poveri nei prossimi otto anni, perché solo alla Cop19 di Varsavia verrà formalizza­to il programma di aiuti tra il 2013 e il 2020, quando si dovranno trovare 100 miliardi di dollari l’anno, sotto forma non di contanti ma di tecnologia verde, know-how e altre risorse per mitigare le conseguenz­e delle catastrofi climatiche sempre più intense e sempre più frequenti, E per adattare infrastrut­ture e stili di vita all’inevitabil­e inasprimen­to delle condizioni atmosferic­he.

A Doha i primi segnali sono venuti dall’Europa: l’Inghilterr­a ha promesso 2 miliardi e 200 mila euro per due anni, la Francia 2 miliardi per un anno e la Germania 1,8 per un anno. Con l’aggiunta di qualche finanziame­nto da Danimarca, Olanda e Norvegia, il totale attualment­e a disposizio­ne per l’anno prossimo arriva a circa 8 miliardi di dollari.

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