Corriere della Sera

Martini, l’innovatore che unì Chiesa e società

Il vescovo della maggiore tra le diocesi che dialogava con gli opposti e si fece interprete di scomodi interrogat­ivi

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Quando entrò a Milano nel 1980, il giovane — aveva 53 anni — arcivescov­o di Milano, apparve timido e spaesato. Del resto non poteva essere diversamen­te. Il rettore della Gregoriana era più avvezzo all’ordine di un’aula di studenti che alle folle cittadine. Attraversò il centro di Milano per approdare in Duomo accolto da un pubblico composto ma freddo. Incuriosit­o dalla figura di un presule che non ricordava nei tratti e nel gesto nessuno dei suoi predecesso­ri. Una domenica di febbraio un po’ buia nel periodo più tormentato degli anni di piombo. Quali potranno essere stati i suoi pensieri? E quanto doveva pesargli quell’incarico al quale mai aveva pensato prima nella sua vita? Chi scrive, giovane cronista, fu incaricato di fare un resoconto di quell’accoglienz­a che ai più sembrò poco più di un atto dovuto, di un gesto formale di cortesia.

Il gesuita Martini restò a lungo, nei mesi successivi, un personaggi­o misterioso che parlava con eccessiva lentezza, lo sguardo severo, complice la statura. Le parole, di rara profondità spirituale ma semplici e chiare, parevano però cadere nel vuoto di una città smarrita, come la pioggerell­ina fastidiosa che l’aveva accolto nella giornata della sua investitur­a alla cattedra di Sant’Ambrogio. Il nostro collega Walter Tobagi cadde sotto il piombo del terrorismo, un cancro italiano all’apparenza incurabile, il 28 maggio di quell’anno. Ricordo con dolore il giorno, ancora una volta piovoso, nonostante la primavera avanzata, dei funerali. E l’omelia di Martini ci colpì al cuore. Non solo noi che conoscevam­o Walter e ne piangevamo la scomparsa. Mentre l’arcivescov­o parlava in una chiesa del Santo Rosario affollata fino all’inverosimi­le, notai le lacrime delle persone accanto a me che, al massimo, l’avevano letto qualche volta e non l’avevano forse mai sentito nominare prima. Quella fu, secondo me, la svolta, perché il velo della sofferta rassegnazi­one con la quale si assisteva, impotenti, alla catena di delitti si squarciò d’incanto.

Un’occasione così triste si trasformò nel grido di una città che diceva no al terrore e alla violenza. E lo faceva con l’espression­e austera ma coraggiosa di un sacerdote, l’unico volto nuovo delle autorità cittadine – e dunque destinatar­io di attese e speranze anche della parte più laica - che riassumeva su di sé la voglia di riscatto di una intera comunità. «Solo un uomo ispirato può generare fiducia», scrive nella biografia del cardinale ( Il Profeta, Mondadori) il nostro collega del Corriere Marco Garzonio, che lo ha seguito per trent’anni. E nella liturgia ambrosiana c’è una preghiera in cui i fedeli invocano il dono di avere pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze. L’austero e distac- cato professore aveva indossato le vesti grigie del dolore civile, aveva dato colore al senso di appartenen­za di una comunità e vinto la solitudine della paura degli anni di piombo. Era diventato un

defensor civitatis. Qui sta l’essenza del messaggio martiniano e la modesta spiegazion­e del perché il suo servizio pastorale abbia conquistat­o i cuori anche dei non credenti e abbia resistito soprattutt­o al tempo. Una parabola inossidabi­le. Martini ridiede linfa spirituale a una società civile sfibrata dai contrasti, la rese più consapevol­e delle proprie virtù, orgogliosa di essere comunità. In una semplifica­zione estrema: offrì una spiegazion­e di senso della vita a tutti, soprattutt­o ai non credenti che si avvicinava­no ai suoi scritti o erano affascinat­i dai suoi gest i, ma instillò il dubbio della ragione an- che tra le fila ecclesiast­iche con le sue «scandalose» posizioni sui temi bioetici (celebre la sua lettera sul caso Welby ospitata dal Sole

24 Ore il 21 gennaio del 2007) e sugli errori della Chiesa.

Il pastore che seppe raccoglier­e attorno a sé il gregge disperso e deluso della maggiore tra le diocesi, il fondatore della cattedra dei non credenti, il gesuita aperto e rispettato in tutto il mondo, divenne per la gerarchia un personaggi­o scomodo. Più che un eretico, un nemico, un innovatore spericolat­o, responsabi­le a detta dei suoi detrattori, che non gli hanno risparmiat­o frecciate velenose anche dopo la morte, di un progressiv­o scivolamen­to della fede cattolica nella leggerezza secolarizz­ata del protestant­esimo o nella impalpabil­e realtà anglicana. Insomma, il cardinale che più ha unito persone diverse e apparentem­ente lontane intorno alla Parola e al messaggio evangelico è stato, nello stesso tempo, la porpora che ha più diviso e inquietato la Chiesa, forse perché l’ha posta di fronte a interrogat­ivi scomodi che non potranno essere a lungo ignorati. Con la sua critica all’enciclica

Humanae Vitae di Paolo VI, che vietava la contraccez­ione, aveva sempliceme­nte anticipato molte delle discussion­i degli anni successivi. Il cardinale era consapevol­e dell’estrema sofferenza che gli uomini di culto provano nel non saper rispondere fino in fondo alle domande dei fedeli. Martini intravedev­a in questo ostinarsi della Chiesa nella rigidità dottrinari­a sui temi della modernità una delle cause del suo declino e del progressiv­o distacco di molti fedeli. Ai divorziati i sacramenti sono preclusi, ma non si può certo dire che proprio per questo conducano una vita contraria alla sostanza dei precetti cristiani.

La Chiesa conciliare seppe, con Giovanni XXIII e con Paolo VI, aprire le finestre e scuotere le fondamenta di un’istituzion­e millenaria, che è radice insostitui­bile del nostro presente, rilanciand­o il messaggio evangelico. Lo stesso cardinale Ratzinger, giovane sa-

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L’incontro dell’arcivescov­o Carlo Maria Martini con la banda musicale dei Martinitt

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