Gli anni di piombo, il terrorismo Così ridiede fiducia a Milano
I punti forti di una lezione che ha attraversato la vita sociale e culturale
a dove vengono queste Lettere pastorali? Da un moment o di s marrimento, di confusione, in cui mi chiedevo: che cosa dico? Ero entrato a Milano come vescovo attraverso una lunga camminata. Ma in quell’estate del 1980 non sapevo proprio come procedere, come mettere ordine nella mia confusione. Da questa prima confessione è nata l’idea della Lettera pastorale (…). Nei primi giorni di agosto ero andato in montagna. Ricordo ancora le grandi cascate che riempivano di suoni e di freschezza le valli. Guardando le cascate iniziai a scrivere la prima Lettera». Così, a distanza di anni, il cardinale Carlo Maria Martini evocava la genesi della sua prima Lettera pastorale.
Quel contesto di «confusione» — che si dipanava attraverso l’esperienza di un silenzio «bianco», che era, come quel colore, sintesi di tutto lo spettro cromatico, cioè compimento di tutte le parole importanti — spiegava lo sbocciare del tema già ben chiaro nel titolo, La dimensione contemplativa della vita. Era, questa, la prima, sorprendente Lettera pastorale del neo-arcivescovo di Milano. La città, infatti, in quegli anni era ancora molto tormentata: si intravedevano i germi della successiva crisi politica, incombeva ancora con tutta la sua brutalità il terrorismo, si erano allentati i valori etici e si registrava un clima di sfiducia nella stessa comunità ecclesiale. Martini, anziché tuffarsi in quel groviglio alla maniera della Marta evangelica, sceglieva la via «più necessaria» imboccata da Maria, quella dell’ascolto contemplativo, della riflessione, del silenzio, della preghiera, del mistero della persona.
Questa linea rigeneratrice attraverserà anche la seconda Lettera — In principio, la Parola — esplicitamente dedicata alla voce di Dio che ci interpella nell’ascolto autentico, trapassando il brusio delle chiacchiere e l’urlo degli eventi storici. Lo stesso filo tematico percorrerà anche le successive Lettere pastorali che pure penetreranno nella piazza della città, ossia della vita civile, sociale, culturale, religiosa della diocesi di cui Martini era pastore. È perciò significativo che il Corriere della Sera, il quotidiano milanese per eccellenza, abbia voluto riproporre in otto tappe l’intero messaggio indirizzato dall’arcivescovo ai fedeli ambrosiani, ma aperto al tempo stesso a tutti i cittadini che, anche se lontani dalla fede, si sentivano spesso interpretati e interpellati da Martini.
Noi ora non vogliamo delineare i contenuti di questi documenti anche perché tra le doti del cardinale c’erano la limpidità del pensiero e la chiarezza del dettato. Infatti egli, idealmente e concretamente, confermava nei suoi scritti e nella sua predicazione il motto di quel grande oratore che fu san Bernardino da Siena: «Colui che parla chiaro, ha chiaro l’animo suo». È invece rilevante definire per i lettori il genere letterario specifico delle Lettere pastorali che sono un’espressione fondamentale del magistero episcopale, cioè della funzione di guida e di maestro che il vescovo deve adempiere. La Lettera delinea il programma della vita religiosa di una comunità, sia nella sua dimensione di contenuti ideali, tematici e di verità, sia nella concretezza dell’esistenza personale e comunitaria.
Si tratta, quindi, non tanto di un quadro generale che di solito il vescovo abbozza in quello che è chiamato il «Piano pastorale», quanto piuttosto di una sua declinazione di quel «Piano» generale in un aspetto particolare, lungo il cammino che una Chiesa locale sta compiendo di anno in anno alla luce del Vangelo. C’è dunque una sorta di scansione progressiva a tappe che solo alla fine rivelano il loro disegno d’insieme, quello che appunto abbiamo definito come «Piano pastorale». Per questo, chi vuole autenticamente conoscere il volto di Martini come pastore deve soprattutto ancorarsi a queste pagine percorrendole nel loro sviluppo pluriennale. Due sono, comunque, i lineamenti strutturali di esse, propri della stessa categoria del «credere». I teologi usano un curioso binomio latino: parlano di una fides quae, cioè di un fede che bisogna credere, ossia di un suo contenuto oggetto di verità permanente, e di una fides qua, di una fede con la quale credere, vale a dire di un atto di fiducia, di adesione vitale, esistenziale, morale. Ogni Lettera pastorale si muove sempre secondo questi due registri che il cardinale Martini bene esprimeva in una sua omelia in occasione della festa del Duomo di Milano, dedicato a «Maria nascente» (8 settembre 1982): la Lettera pastorale «non vuole proporre solo delle cose da fare insieme. Intende anche creare le premesse e gli stimoli per un pensare insieme: il pensare in- sieme il volto della nostra Chiesa diocesana è la prima cosa da fare importante e decisiva». Pensare e agire, dunque, in simbiosi efficace. E se la Lettera pastorale è per eccellenza l’atto più alto della missione pastorale del Vescovo, ciò non significa che essa nasca in solitario. Anzi, soprattutto nello stile di Martini, fiorisce anche dal respiro di una comunità, cioè dalle istanze, dai suggerimenti, dalle domande del popolo cristiano.
Ma non solo, perché il cardinale amava ascoltare anche la voce dei non credenti e di tutti coloro che sono cercatori di verità e di giustizia. Io stesso, ad esempio, fui testimone, in Arcivescovado, di un lungo dialogo tra Martini e Umberto Eco, Beniamino Placido, Aldo Grasso e Armando Torno in preparazione di una Lettera pastorale che ebbe un forte impatto anche extra-ecclesiale, quella dedicata alla comunicazione di massa e intitolata Il lembo del mantello (1991-92). In questa luce si comprende come siano emblematiche per l’opera di Martini due parole di matrice latina usate dal vocabolario teologico per definire la missione del pastore nella Chiesa.
C’è innanzitutto il termine «magistero» che si fonda sul magister, il «maestro», ma anche il «signore» della cultura classica. Nella sua radice è contenuto l’avverbio magis, «più»: si denota, quindi, una funzione di «superiorità», cioè di guida, un po’ come fa il pastore «buono/bello» descritto da Gesù nel quarto Vangelo: «Egli cammina davanti alle pecore, esse lo seguono perché conoscono la sua voce» ( Giovanni 10,4). La voce del pastore risuona forte e chiara, il suo bastone indica «il giusto c a mmino » e « d à s i c u r e z z a » ( Sal. 23,3-4) e il gregge procede lungo quel tracciato, ascoltando la parola della guida. È per questo che nel Cenacolo, l’ultima sera della sua vita terrena, Cristo dichiara esplicitamente: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono» ( Giovanni 13,13).
Ma Gesù pronuncia questa frase proprio mentre è in ginocchio e sta lavando i piedi ai discepoli, in un gesto estremo di servizio. Ecco, allora, l’altro vocabolo «ministero», che si fonda sul latino minister, il «servo», un termine che ha come radice l’avverbio minus, «meno»: il vero pastore, infatti, deve donarsi per il suo gregge, anzi, «dà la propria vita per le pecore» ( Giovanni 10,11). E il motto autobiografico di Cristo è emblematico: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» ( Marco 10,45). Il «magistero» del cardinale Carlo Maria Martini è stato un vero «ministero» e la partecipazione dei fedeli e di tutti i cittadini ambrosiani all’evento della sua scomparsa ne è stata l’attestazione più viva e diretta.
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa