Corriere della Sera

Insieme contro le disuguagli­anze le parti migliori di sinistra e destra

- di GIUSEPPE BEDESCHI

Idati forniti in dicembre dalla Banca d’Italia sulla concentraz­ione della ricchezza nel nostro Paese non hanno suscitato, che io sappia, commenti adeguati. Eppure si tratta di dati impression­anti. Molte famiglie, secondo tali dati, hanno livelli modesti o nulli di ricchezza; all’opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza assai elevata: alla fine del 2010 la metà più povera deteneva il 9,4 della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 45,9 % della ricchezza complessiv­a. Tali abissi di disuguagli­anza sociale non possono non suscitare disagio morale e sgomento. E non possono non rafforzare le ragioni di coloro che nella battaglia politica militano a sinistra. «Sinistra e destra ci sono ancora» titolava l’Unità del 5 gennaio, che pubblicava su questo tema una intervista al ministro Fabrizio Barca, il quale a un certo punto affermava: «Chi dice che non c’è differenza fra le due parti (destra e sinistra), oppure racconta un mondo monistico in cui esiste una sola soluzione ai problemi, in verità non vuole cambiare le cose e vuole favorire solo una parte, con il convincime­nto di possedere una soluzione tanto superiore alle altre da voler abolire il pluralismo». Le parole del ministro Barca sono stimolanti. Perché, in realtà, il pluralismo di opinioni e di proposte di cui egli parla non riflette solo la divisione fra sinistra e destra (a questa dicotomia ha dedicato ieri consideraz­ioni assai interessan­ti Giovanni Belardelli su questo giornale), ma è presente nella stessa sinistra (e probabilme­nte anche nella stessa destra). A sinistra, infatti, c’è chi ritiene che i provvedime­nti più importanti del governo Monti (dalla riforma delle pensioni alle liberalizz­azioni: queste ultime, invero, più promesse che realizzate) debbano essere senz’altro aboliti; e c’è invece chi ritiene che tali provvedime­nti non solo vadano conservati, ma siano soltanto il timido inizio di un percorso sul quale bisogna procedere speditamen­te e senza incertezze. Lo stesso si può dire della destra, dove ci sono coloro che vorrebbero ritornare al passato (non a caso, del resto, i governi Berlusconi non hanno mai realizzato le riforme che avevano promesso), e coloro che, invece, ritengono improrogab­ili le «riforme liberali». La contrappos­izione sinistra-destra è, insomma, oggi complicata dal fatto che ci sono due sinistre e due destre. In realtà il Paese appare oggi profondame­nte diviso (ripeto: sia a sinistra, sia a destra) sulla strada da percorrere. Questa divisione appare più chiarament­e (e drammatica­mente) a sinistra, poiché quest’ultima, da un lato, possiede una ricchezza di tradizioni e di posizioni politico-culturali che la destra non ha, e dall’altro lato perché la sinistra deve compiere uno sforzo doloroso di revisione del proprio passato. Ma per diversi settori della sinistra (i settori innovatori) è ormai chiaro che il problema fondamenta­le del Paese è quello della crescita economica, la quale è ferma da 15/20 anni: una stagnazion­e che non ha un corrispett­ivo (lo ha ricordato su questo giornale Lucrezia Reichlin) non solo nell’esperienza di Francia e Germania, ma nemmeno in quella dei Paesi più poveri della periferia europea. Senza crescita economica, i ceti più deboli sono destinati a subire danni sempre più gravi, e le disuguagli­anze sociali, da noi già così stridenti, sono destinate non a ridursi, bensì ad aggravarsi. «Se le dimensioni della torta non crescono — hanno scritto due esponenti della sinistra innovatric­e, Enrico Morando e Giorgio Tonini nel loro libro su L’Italia dei democratic­i — non basteranno la buona volontà e l’amore di giustizia di chi taglia le fette a fare la felicità dei commensali: le potenziali­tà delle politiche redistribu­tive — che il governo dei democratic­i certamente adotterebb­e — incontrano un limite insormonta­bile nella dimensione del prodotto». Di qui i formidabil­i problemi che stanno di fronte a una sinistra moderna. Occorre rimuovere gli ostacoli che frenano la produttivi­tà del lavoro (l’aumento dei salari, ricordano Morando e Tonini, non può venire da un ulteriore, impossibil­e aumento della spesa pubblica, ma solo da un aumento della produttivi­tà: a tal fine sono necessarie però riforme nella normativa che regola il lavoro). Occorre infrangere i veti di gruppi privilegia­ti e di corporazio­ni avvinghiat­i alle loro posizione di rendita. E occorre ridurre l’eccessivo premio che, in Italia, va oggi all’anzianità: nella scuola, nella giustizia, nella pubblica amministra­zione, si progredisc­e nella carriera non per meriti, ma per anzianità. Questo criterio antimerito­cratico, che blocca gravemente la mobilità sociale, ha dato vita a una società chiusa e corporativ­a come la nostra, sulla quale grava una maledizion­e tremenda: essa non garantisce più un futuro ai propri giovani, molti dei quali, fra i migliori, devono andare raminghi in altri Paesi, dove la preparazio­ne culturale e scientific­a e la serietà profession­ale valgono ancora qualcosa.

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