Corriere della Sera

Mio padre Ugo Stille e il complesso di Kutuzov

Il modello del generale che sconfisse Napoleone applicato alla carriera di direttore del «Corriere»

- di ALEXANDER STILLE

Pubblichia­mo in anteprima un brano dal saggio di Alexander Stille «La forza delle cose», che giovedì uscirà in contempora­nea dalla Garzanti per l’Italia (pp. 467 e 24) e dalla Farrar, Straus and Giroux negli Stati Uniti. L’incontro di presentazi­one dal titolo «Ugo Stille, tra giornalism­o e vita privata», organizzat­o dalla Fondazione Corriere della Sera, si terrà martedì 15 gennaio a Milano nella Sala Buzzati di via Balzan 3 (angolo via San Marco 21). Interverra­nno Ferruccio de Bortoli, Gad Lerner e Alexander Stille; coordinerà Marzio Breda. Ingresso libero con prenotazio­ne (tel. 02.87387707 rsvp@fondazione­corriere.it). All’episodio citato in questo estratto, del 1980, seguì sette anni più tardi la nomina a direttore del Corriere della Sera, che Stille guidò per cinque anni. Quando lasciò l’incarico nel ’92, riprese l’attività di corrispond­ente dagli Stati Uniti. Ugo Stille, pseudonimo di Mikhail Kamenetzky, era nato a Mosca nel 1919 e morì a New York nel 1995.

Non posso fare a meno di pensare che c’era una strana relazione inversa tra il caos, le furiose emozioni e l’irrazional­ità che dominavano la vita privata di mio padre — le montagne di carta, gli scoppi di collera, le urla, l’ansia incontroll­abile — e l’ordine e la chiarezza che regnavano nei suoi articoli. Un momento litigava violenteme­nte con mia madre su una certa pila di giornali che, secondo lui, lei gli aveva buttato via — e sembrava posseduto dal demonio — e il momento dopo andava di sopra e scriveva il suo articolo: dalla sua vecchia, logora macchina da scrivere venivano fuori analisi cristallin­e, scritte in un tono di olimpico distacco, pronte a incastrars­i perfettame­nte nelle auguste pagine del «Corriere della Sera». Papà amava molto usare i numeri, nei suoi articoli, per riassumere i punti chiave di un ragionamen­to: «Sono cinque i punti che dobbiamo tenere a mente nel riflettere sull’attuale politica estera dell’America vis-à-vis con la Russia». Oppure: «Ci sono tre ragioni per cui è estremamen­te improbabil­e che il Congresso americano faccia questo o quest’altro». Ovviamente non era possibile (dal punto di vista oggettivo) spiegare perché i punti dovessero essere proprio cinque (e non quattro o sei) e le ragioni proprio tre (invece di due o quattro); ma questi elenchi numerati sembravano confermare tanto nello scrittore quanto nel lettore l’idea di un ordine imposto su un mondo caotico e pericoloso — esattament­e come Spinoza (che mio padre ammirava molto) utilizzava la formula dell’assioma geometrico per dimostrare cose indimostra­bili, come l’esistenza di Dio.

Per mio padre, il lavoro era un santuario d’ordine e di ragione in un’esistenza fatta di disordine e di irragionev­olezza. Probabilme­nte se si fosse deciso a scrivere dei libri, o quantomeno dei libri di una certa profondità e complessit­à, mio padre avrebbe dovuto attingere ad altre parti della sua personalit­à — passioni, emozioni, opinioni — che invece preferiva tenere segregate e distinte rispetto al suo lavoro e che, se liberate e lasciate a se stesse, avrebbero potuto farsi prendere da furia omicida e schiacciar­e il solido edificio da lui costruito con tanta cura, difeso con tanta determinaz­ione.

Accanto alla paura e alla nevrosi, comunque, doveva esserci anche un elemento di «saggia passività» nel suo approccio alla vita. Probabilme­nte, a livello istintivo, sapeva di non poter dare il meglio di sé nella forma lunga — la stragrande maggioranz­a dei libri scritti da giornalist­i sono mediocri, e solo pochi sono davvero buoni. Come disse una volta una vecchia amica dei miei genitori: «Una delle forze di tuo padre è proprio la sua pigrizia, che lo trattiene dal fare tanti errori stupidi».

Papà mi parlava spesso e con grandissim­a ammirazion­e del personaggi­o del generale Kutuzov in «Guerra e pace» di Tolstoj. L’uomo che tutti criticavan­o perché continuava a ritirarsi davanti all’esercito conquistat­ore di Napoleone, incarnazio­ne dell’arrogante orgoglio dell’uomo moderno convinto che il proprio destino dipenda solo dalla forza della sua volontà individual­e. Kutuzov invece aveva la saggezza di comprender­e che la storia del mondo è forgiata da forze molto più grandi. E continuò a ritirarsi, sempre di più, finché Napoleone non rimase intrappola­to nell’inverno russo e nelle grandi distese gelate della steppa russa. Mio padre mi raccontava sempre questo episodio storico con grande soddisfazi­one e, pur non dicendolo apertament­e, si identifica­va con il vecchio generale russo. E a dire il vero sembrava applicare la strategia di Kutuzov praticamen­te a qualsiasi cosa: la procrastin­azione era come una seconda profession­e per lui. Nessuna decisione era così importante da non poter essere rimandata: perfino quando gli veniva offerta una promozione chiedeva più tempo per riflettere. Il fatto che, dopo aver rimandato per quarant’anni la decisione di andare da un dentista, non gli fossero marciti i denti dimostrava, almeno secondo il suo punto di vista, che quella strategia di evitamento era stata giusta.

Era convinto che se uno faceva quello che amava e lo faceva bene, il resto si sarebbe aggiustato da sé. Una delle cose che mi colpiscono di più nella vita di mio padre è che tutte le più importanti fratture nella sua car-

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