SULLE PANCHINE, NEI METRÒ, AL SEMAFORO IL RITORNO DELLA POESIA IN PILLOLE
Che la poesia si insinui ovunque, incisa sulle panchine del lungomare di Albenga o sui muri del centro storico di Genova, in un angolo di un parco torinese o nella metropolitana di Napoli, è una gran bella notizia, con buona pace dei tanti sacerdoti del verbo poetico che storceranno certamente il naso, considerando le composizioni in versi messaggi non consumabili al di fuori della cornice sacra di un libro o della voce ben impostata di un attore.
Invece ben vengano le accensioni di Luzi, Tonino Guerra, Caproni, Montale inserite surrettiziamente nel panorama consunto della quotidianità. Pazienza se si tratta in realtà di frammenti sparsi o di aforismi buttati là in un nulla apparente. Ben vengano anche le «performance invasive» del poeta di strada Ivan Tresoldi, che da anni compie i suoi cosiddetti assalti poetici nelle città. Ormai diffondere la poesia attraverso i canali tradizionali è un’opera apprezzabile quanto fallimentare: oggi chi vende mille copie di una raccolta poetica può già gridare al bestseller. Dunque, che si sperimentino strade alternative non è male. E non ci si può che rallegrare doppiamente se queste strade non sono strade virtuali (quanti inutili blog poetici!) ma fisiche: con muri, appunto, panchine, alberi, cancelli, case, facciate. Pensate che sminuzzandola in minuscoli frantumi la poesia non venga compresa come si dovrebbe? Sosteneva T.S. Eliot che «la vera poesia può comunicare anche prima di essere capita».
Il poco, parlando di versi e rime, oggi è già tantissimo. Non c’è niente al mondo che sia più libero da preoccupazioni di mercato: per questo, forse, la poesia resiste a tutto, da millenni, pervasiva e versatile, abituata com’è a sopravvivere in ambienti che non le sono mai stati propizi (oggi meno che mai). Si potrebbe ripetere quel che diceva con una certa sorpresa, oltre quarant’anni fa, il grande critico Luigi Baldacci: «Il mondo la ignora, ma la poesia sopravvive». Evviva.