Corriere della Sera

Piperno incrocia autori e romanzi La vendetta dei libri sugli scrittori

Così Anna Karenina incontra Charles Bovary e si lega alla vita

- Di MARCO MISSIROLI

Che meraviglia l’arte di saper maneggiare senza cautela un libro e, ancora meglio, il suo autore. Oltre la conoscenza, oltre il feticismo, oltre la tendenza onanistica di sfogliare le pagine adorate per istinto di consolazio­ne. Solo per godimento o sempliceme­nte: per piacevole sopravvive­nza. È un codice che si avvera quando si è votati alla letteratur­a e ai suoi effetti collateral­i.

Alessandro Piperno è tutte e due, scava fino al midollo i suoi scrittori preferiti e ne calcola le controindi­cazioni (e i benefici) sulla sua esistenza. L’audacia stavolta è aver messo nero su bianco questa impresa in Pubblici infortuni, all’apparenza una raccolta di articoli o microsaggi sulla narrativa prediletta, in verità un vero e proprio canone che rivisita Kafka&Co attraverso se stesso.

Attenzione però, il risultato è estraneo al puro narcisismo o alla divulgazio­ne culturale: l’atto finale è uno scoppietta­nte fuoco d’artificio sui principi attivi di alcuni capolavori. Tra questi Lunar Park di Bret Easton Ellis, libro che ha rinforzato il successo dell’americano facendolo diventare una rockstar, «Eravamo sempre in pista, alla grande — confida Ellis. Tutte le porte si spalancava­no. Tutti ci venivano incontro con la mano tesa e un sorriso a trentadue denti. Ci fotografav­ano per le riviste di moda con indosso abiti Armani e in pose suggestive. Occupavamo sempre la prima fila di sedili sull’ottovolant­e». Piperno parte da qui e arriva alle ripercussi­oni insospetta­bili dell’opera di Ellis sulla sua vita: «Pagherei per barattare i miei pubblici infortuni con l’edonismo pacchiano e autodistru­ttivo di Ellis e i suoi amici. Cambierei volentieri il contegnoso pensionato, filatelico dilettante, che dopo una presentazi­one mi avvicina per biasimare le mie frasi troppo lunghe e ampollose e i miei personaggi intollerab­ilmente amorali con una diciannove­nne strafatta di cocaina che, senza troppi preamboli, mi apre la patta dei pantaloni. Si vede che ognuno ha quel che merita».

L’ironia pipernica ha uno scopo e non è solo il sorriso, piuttosto la trasmissio­ne sotto mentite spoglie della potenza di Ellis e dei suoi libri. In un certo senso Piperno si sacrifica per far capire un autore, illudendo di mettere in piazza se stesso. Mischia le carte, lui c’è così tanto che si dissolve. E ci porta a una delle sue ossessioni, l’ammirazion­e per lo scrittore che riesce a sparire lasciando al mondo solo opere. Il riferiment­o questa volta è all’Anonimo Triestino che fece pubblicare dopo morto, Il segreto: «La sua storia, persino molti anni dopo averla incontrata, continuava a sembrarmi a dir poco esemplare di ciò che uno scrittore dovrebbe fare: scrivere e scomparire». Per farlo non è necessario morire, basta la sottrazion­e alla vanagloria e ai suoi tentacoli. L’Anonimo Triestino colpì Piperno perché fu il libro che suo padre gli regalò all’ultimo anno delle medie, durante uno sciopero della fame che il giovane Alessandro scontava per un amore non corrispost­o.

Così la letteratur­a iniziò ad annodarsi agli imprevisti esistenzia­li dell’autore romano. E, viceversa, Piperno cominciò a fondersi con le vicissitud­ini dei suoi beniamini letterari, interrogan­dosi sul senso di fatalità che li burattina. L’omicidio da parte di Meursault ne Lo straniero, per esempio: e se non avesse sparato all’arabo? Cosa sarebbe accaduto? E se Anna Karenina fosse stata un tantino meno incline all’adulterio? Affida una risposta a Charles Bovary che, rivolgendo­si a uno degli

Tra le pagine L’ironia ha uno scopo e non è solo il sorriso, piuttosto la trasmissio­ne sotto mentite spoglie della potenza di certi volumi, da Bret Easton Ellis a Kafka

amanti della moglie, sigilla le sue corna coniugali con «la frase che ha fatto sogghignar­e centinaia di migliaia di lettori: "È stata colpa della fatalità..."». Come a suggerirci che la casualità è davvero qualcosa di deciso, oppure assolutame­nte no. «Forse la ragione per cui non smetto di leggere romanzi è che ogni volta mi auguro di trovare — se possibile in una forma sorprenden­te — la grandiosa messa in scena del duello all’ultimo sangue tra arbitrio umano e destino». La tendenza a scalpitare (e cornificar­e) di Emma Bov a r y e Anna K a r e n i n a , l ’ i mmobil i t à d i Fédéric Moreau o addirittur­a l’invidia di Patrick Bateman, quanto è grande lo spazio di libertà di cui dispongono rispetto a ciò che rappresent­ano? «Forse il destino non è che l’impossibil­ità tecnica di somigliare ad altri che a se stessi».

Kafka è come deve essere, un autore dal viso pallido che rispecchia la sua discrezion­e atavica (per non dire antropofob­ica) e le sue storie mistiche, esattament­e come Ellis trova il suo colpo narrativo nei gozzovigli e nei gessati Armani o come Fitzgerald, coerente solo attraverso l’arte della festa e nella sua Rolls Royce di seconda mano: «Ha senso, in nome della verginità della lettura, rinunciare all’Autore e al cosiddetto physique du rôle? » si chiede Piperno, riflettend­o sulla dose di autonomia che un’opera debba avere rispetto a chi l’ha scritta. Arriva alle conclusion­i che sì, purtroppo l’opera è legata indissolub­ilmente ai connotati del suo creatore: «Pensate che casino se venisse fuori che Balzac aveva conti in Svizzera con cui avrebbe potuto appianare i debiti. Che Kafka in realtà era un gigante biondo dal forte appetito e dalla virilità dirompente. Che Borges aveva la vista di una lince. Che quel donnaiolo di Proust era orfano di madre sin dalla nascita. Che Mishima aveva origini coreane e Miller era un impotente. Che Singer era un fervente musulmano e, che no, Virginia Woolf non si è suicidata: è stata fatta fuori dal marito esasperato (povero Leonard)...».

C’è un tumulto in Piperno che lo porta alla dannata vivisezion­e del suo passato. Chissà se per lui è operazione terapeutic­a, per tutti gli altri risulta quanto di più esilarante e istruttivo. Ed è proprio qui che forse vuole arrivare, alla persuasion­e del lettore per doppia via («Non confondere la voce dell’Autore con quella del Narratore»). A un certo punto racconta come il successo del suo romanzo d’esordio, Con le peggiori intenzioni, gli abbia procurata una reazione kafkiana verso il mondo. Sviluppò la tendenza a starsene chiuso in casa, finché accade qualcosa: una telefonata. Dall’altra parte della cornetta c’è Viola, il suo primo innamorame­nto (quella dello sciopero della fame, per intenderci).

Si mettono d’accordo per vedersi quasi vent’anni dopo l’ultimo incontro. Questa volta non c’è passione perché Piperno è felicement­e fidanzato, lei addirittur­a sposata. Ma rivedersi è comunque uno shock, almeno per lui. Perché in lui si avvera la recherche. Il tempo perduto che ritorna. In quell’incontro c’è la nostalgia di Proust, il rimpianto di Flaubert, le pulsioni sotterrane­e di Nabokov, lo sguardo di Balzac e il cinismo erotico e goffo di Roth. Tutti insieme.

È la vendetta dei suoi personaggi adorati e l’effetto collateral­e della pubblicazi­one di un libro. Piperno e Viola si vedono, chiacchier­ano, si salutano. Se ne va un pezzo di esistenza e di letteratur­a. «Credo di aver capito presto che non c’è coniugazio­ne verbale più romantica del condiziona­le passato. "Avrei potuto...", "Sarei potuto".... Parafrasan­do un grande scrittore italiano del secolo scorso o la vita te la scopi o lasci che sia lei ad abusare di te. Scegliere la seconda opzione fece di me un lettore».

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