Dalle Province ai rimborsi la casta da ridimensionare Con il rischio di imboscate
I partiti dovranno riformarsi e perdere soldi
Sappiamo come le cose sono andate finora e non resta che rifugiarsi nella speranza. Non c’è governo che non abbia promesso l’abolizione delle Province, sempre inutilmente. Rispetto a quanti l’hanno preceduto, tuttavia, Enrico Letta ha un paio di vantaggi: un Parlamento largamente rinnovato, con una grossa sponda (il Movimento Cinque Stelle) fuori dal governo ma favorevole senza se e senza ma al taglio dei costi della politica, e la strada già fatta. Anche se manca il pezzo decisamente in salita.
Riavvolgiamo il nastro. A fine 2011 il governo di Mario Monti decreta con il «salva Italia» lo svuotamento di funzioni delle Province e la loro riduzione a enti non più elettivi e gestiti al massimo da 10 consiglieri nominati dai Comuni. È la chiara premessa per il colpo di spugna definitivo. Mancano appena i meccanismi di attuazione, quando ecco una mezza marcia indietro, motivata con il rischio incombente di un ricorso alla Consulta. Le Province sopravviverebbero, ma ridimensionate nel numero e comunque non più elette dai cittadini. Questo nuovo progetto, partorito dal ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, ora promosso a sottosegretario alla presidenza, viene però impallinato in Parlamento dal Partito delle Province, proprio sul filo di lana della legislatu- ra. E si torna così al «salva Italia». A questo punto sarebbe sufficiente riprendere in mano la vecchia pratica, approvando la legge sui nuovi criteri di nomina dei consigli (anch’essa ferma in Parlamento) e decretando il trasferimento delle funzioni a Comuni e Regioni, e il gioco sarebbe quasi fatto. Faccenda problematica, ma non impossibile. Il resto verrebbe da sé. Ridotte a scatole vuote, le Province sarebbero destinate a una rapida evaporazione. Questo, in teoria. Perché c’è un problemino: quel ricorso alla Consulta che Patroni Griffi contava di sgonfiare è ancora vivo e vegeto. La decisione arriverà fra giugno e luglio e prima di allora sarà difficile mettere mano alla questione. Se poi le norme del «salva Italia», come sperano le Province, verranno bocciate, diventerà inevitabile affrontare il lungo e rischioso iter di una legge costituzionale. Intanto, in barba alla legge che è pur sempre in vigore, in qualche posto tutto continua come prima: dieci giorni fa è stato rinnovato dagli elettori il consiglio provinciale di Udine.
Più semplice, anche se non meno dolorosa, la riforma del finanziamento dei partiti. Più semplice sulla carta, ovvio. La spinta dell’opinione pubblica è impetuosa e le promesse trovano consensi quasi a 360 gradi. Ma parlare è facile: qui è in ballo la sopravvivenza stessa degli apparati. E già la legge approvata a luglio 2012 sull’onda dell’indignazione popolare, che ha ridotto del 50% i rimborsi elettorali e ora dovrebbe essere abrogata, gli andava stretta. Alcuni di loro hanno problemi non irrilevanti avendo scontato presso le banche contributi poi non riscossi per il taglio imposto la scorsa estate: per il Pdl (Silvio Berlusconi ha promesso l’abolizione del finanziamento pubblico), ad esempio, è un dettaglio da 20 milioni. Altri, come il Pd, hanno strutture imponenti (solo la sede centrale, dice l’ultimo bilancio pubblico, ha circa 190 dipendenti) e dunque costose. Assisteremo al solito estenuante tira e molla? Difficile dire. Ma siamo pronti a scommettere che c’è chi farà di tutto per scavallare la scadenza del 31 luglio. Ovvero, il giorno di scadenza della sospirata prima tranche dei rimborsi.
E l’attuazione del famoso articolo 49 della Costituzione sull’organizzazione e la forma giuridica dei partiti cui ha fatto riferimento Letta,
Gli errori da non ripetere L’abolizione delle Province del 2011 si è poi trasformata in riduzione Sui finanziamenti elettorali c’è chi farà di tutto per arrivare al 31 luglio, quando arriverà la prima tranche
mai realizzata in ben 65 anni di storia? Nei cassetti della Camera c’è ancora una proposta di legge spiaggiata, più o meno insieme alla riformina delle Province, prima delle dimissioni di Monti. Anche qui c’è solo da augurarsi che esca in fretta, magari un po’ migliorata rispetto a una versione iniziale davvero poco incisiva. Consoliamoci con l’abolizione dello stipendio dei ministri: qualcuno l’avrà presa male, ma è l’unica promessa che Letta può mantenere subito, senza dover affrontare imboscate in Parlamento. A occhio e croce parliamo di tre milioncini l’anno, considerando anche i sottosegretari. Ma di questi tempi tutto fa brodo...