Una scuola moderna ma con i parametri Ocse
seguito nella tendenza. I figli di coppie italiane sono invece diminuiti di oltre trentamila unità tra il 2008 e il 2011.
Che l’Italia abbia un problema demografico lo si sa da tempo. Che questo sia destinato ad avere effetti non indifferenti sull’economia e sulla società è chiaro: meno giovani per sostenere anche dal punto di vista pensionistico una popolazione sempre più anziana; leggi pensate soprattutto per cittadini senior; una cultura che guarda più al presente che al futuro, come dimostra l’alto debito pubblico che si troveranno a dovere ripagare le generazioni in arrivo. La novità è che la crisi sta peggiorando questa già non facile situazione. Se infatti alla diminuzione del numero dei nati si aggiunge la contrazione dei flussi migratori in entrata dovuta alla minore capacità di attrarre
I numeri Nel 2011 l’Italia era ventesima tra i 27 Paesi Ue per tasso di crescita naturale, mentre hanno continuato a crescere i nati da un genitore straniero
del Paese, si può immaginare che le ferite lasciate dalla crisi saranno più profonde di quelle che già oggi si possono vedere.
Nel discorso di ieri, Letta ha detto che «si potranno studiare forme di reddito minimo per le famiglie bisognose con figli piccoli». Sarebbe anche il caso di studiare a fondo — come ha fatto di recente il governo tedesco — quali sono le politiche che favoriscono la nascita di figli. Perché ormai la crisi sta sfregiando anche l’anima del Paese.
@danilotaino
Ha detto Enrico Letta: «La società della conoscenza e dell’integrazione si costruisce sui banchi di scuola e nelle università. Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica». Il presidente del Consiglio ha aggiunto che solo il 10% dei giovani italiani col padre non diplomato riesce a laurearsi contro il 40% in Gran Bretagna e il 33% in Spagna. Inutili i commenti, le cifre sono troppo eloquenti. La scuola pubblica italiana è in una crisi abissale. Molti insegnanti si sentono in trincea senza un quartier generale alle spalle. E quel quartier generale è un governo, la mano politica.
Non è solo questione di fondi. C’è una complessiva centralità che la scuola sembra aver perso come agenzia sociale di formazione delle nuove generazioni, e quindi di riferimento per la intera collettività. C’è chi non vede l’ora di raggiungere l’età della pensione per abbandonare un mondo nel quale non si riconosce più. Non c’è solo l’età di mezzo: è la perdita di un senso complessivo del lavoro, la sensazione di uno sganciamento dalla contemporaneità.
Sicuramente il nuovo capo del governo sa che per creare quella nuova società «della conoscenza e dell’integrazione» di cui ha parlato c’è un solo metodo, per non perdere tempo: allinearsi all’Europa. L’Ocse, pochi giorni fa, ha esaminato il Piano nazionale scuola digitale e ha scoperto che appena il 30% degli studenti italiani per studiare usa le tecnologie della comunicazione contro il 48% della media europea. Appena il 16% delle classi è dotata di una lavagna interattiva contro l’80% della Gran Bretagna. È ovvio che, per ricostruire una società che ha perso coesione, occorre ripartire dalla scuola. E la questione non riguarda solo i ragazzi. Recentemente Tullio De Mauro ricordava: «Basterebbe un piccolo investimento per tenere aperte le scuole nel pomeriggio e organizzare corsi di varie discipline per «rieducare» quegli adulti ancora attivi ma condannati a una progressiva, inesorabile marginalità culturale e sociale».
Insomma, la scuola è ancora una risorsa, una possibile rampa per un nuovo decollo. Ma un governo deve crederci profondamente. Esperienze molto amare, e nemmeno tanto lontane, dimostrano come certi slogan facili quanto inutili passano. E la scuola sempre più impoverita di mezzi e di motivazioni resta. Purtroppo per l’Italia, a terra rispetto all’Europa.