Elegia veneziana tra Goldoni e Longhi
Elegia veneziana, venti poesie come venti volte i remi che entrano in acqua. Di qualunque cosa Andrea Longega (nella foto) scriva, siano gli splendidi versi ospedalieri della raccolta Finìo de zogàr, siano questi altrettanto belli di Caterina o del pulire le stanze d’albergo (L’Obliquo, pp. 53, 11), dietro ogni suo verso senti quel lieve fruscìo, vedi quell’acqua rotta che trema. Caterina che di notte sogna «sugamani bianchi / rubinéti / ... / e ’l viso scarmo de mia mama», e che di giorno pulisce le stanze e riconosce i segnali, le tracce, le storie di chi passa: l’uomo solo che occupa poco spazio «quasi el dormisse ’ncora / in quel lèto picolo / che ’l gaveva da putèlo», «do òmeni che dorme insieme — da nuialtri / anca pochi — no sémo gayfriendly», «le signore beate, fortunae / che ga vestiti beli / come le gole dei colombi / e le còe dei cardelini», gli amanti che prima d’andar via sistemano il letto e «no i capisse invense che ela / cussì, vede mègio el pecà», Caterina che legge furtiva le strane parole nel libro sul comodino («portare la nostra parte di notte / la nostra parte d’aurora»). Intanto fuori dalla finestra a volte «xe marzo meto zo / el sécio e la strassa», per guardare «sora l’aqua tuto quel sbrisegàr de luce», a volte «xe inverno, piove», Caterina guarda dalla finestra chiusa nella stanza di fronte dove una donna muove le labbra, parla da sola, forse ripete «el nome longhissimo / de so marìo che xe morto».
Pittore febbrile di parole, Longega ha dietro di sé le grandi tele di Longhi e in letteratura le meravigliose servette e locandiere goldoniane, come ben dice Edoardo Zuccato nella nota al libro. Ma poi c’è il grande salto, terzo millennio, la lingua veneziana di Longega è come il milanese di Loi, una lingua viva tutta sua, è come il romagnolo di Raffaello Baldini che tanto ci manca, ma Venezia si sarà almeno accorta di avere il suo nuovo Biagio Marin? Avrà letto la sua dichiarazione d’amore «semo lontre nuialtri venessiani / semo rane, e no sténe creder / co se lagnemo de l’aqua che cresse /... trovémo sempre na pièra più alta, na sfésa / che ne salva»? mente, allo scopo di creare difficoltà». È vero che, prima del Spinoza aveva scritto l’Etica, un libro altrettanto importante. Ma, a differenza del tono freddo e distaccato dell’Etica, il Trattato, scrive Nadler, «è un’opera appassionata, perfino rabbiosa, non si può fare a meno di notare un fervore e una sorta di urgenza che percorrono in modo impercettibile (e a volte nemmeno così impercettibile) tutti i capitoli del libro». Inoltre, prosegue Nadler, il Trattato appare, ben più dell’Etica, «un’opera polemica che esamina i fondamenti storici, psicologici, testuali e politici della religione tradizionale o popolare». E in quanto tale, assai più dell’Etica, si prestava a essere «interpretato» da un maggior numero di lettori. Cosa che preoccupava e infastidiva l’autore.
Quando diede alle stampe il Trattato, Spinoza aveva 38 anni. Era nato nel 1632 da un’agiata famiglia di mercanti della comunità ebraico-portoghese di Amsterdam. Una comunità di sefarditi, fondata dai cosiddetti «nuovi cristiani», o conversos — ebrei che in Spagna e Portogallo, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo, erano stati costretti a convertirsi al cattolicesimo. Questi conversos, messi in difficoltà dall’Inquisizione spagnola che non credeva al loro cambio di religione, all’inizio del Seicento avevano abbandonato la penisola iberica e si erano trasferiti ad Amsterdam (o in qualche altro centro dell’Olanda settentrionale). Città che avevano offerto a questi profughi l’opportunità di «ritornare alla fede degli avi e di riprendere la loro vita secondo le consuetudini ebraiche».
L’ebreo Spinoza — il quale, contrariamente a quel che è stato più volte scritto, non cercò mai di diventare un’autorità religiosa — ebbe come insegnanti tre rabbini: Menasseh ben Israel, che all’epoca era probabilmente l’ebreo più famoso di tutta Europa, Isaac Aboab da Fonseca e il «sapientissimo» Saul Levi Mortera della comunità di Amsterdam, sotto la cui guida ebbe accesso alle opere di Maimonide, autore nel XII secolo dell’opera più importante di tutta la filosofia ebraica, La guida dei perplessi. Per Maimonide — altro pensatore che, come Spinoza, avrebbe attirato l’attenzione di Leo Strauss — il contenuto della profezia sarebbe, almeno in parte, filosofico, sicché sia il filosofo sia il profeta sono «veicoli di verità»; e poiché «una verità deve essere di necessità coerente con le altre verità», filosofia e profezia, se correttamente intese, «devono sempre concordare». Cosicché «la verità filosofica e la verità rivelata non entreranno mai in conflitto». Spinoza si sofferma su Maimonide, che userà nel Trattato a proprio vantaggio per polemizzare contro la tradizione («I profeti della Bibbia ebraica», sostiene Spinoza, «erano in effetti, come dice Maimonide, personaggi dotati di grande forza d’immaginazione ma non filosofi, né uomini particolarmente dotti»). Successivamente, per dedicarsi al latino e ai classici, Spinoza sarà allievo anche di Franciscus Van den Enden, un ex gesuita di idee politiche radicali destinato a finire sul patibolo per aver preso parte a un complotto repubblicano contro il re di Francia Luigi XIV. E Van den Enden lo avrebbe introdotto
La messa al bando Le supreme autorità religiose israelitiche di Amsterdam vietarono di comunicare con il pensatore eterodosso e addirittura di leggere qualsiasi testo scritto da lui