Filosofi
allievi di Descartes, come Regnier Van Mansvelt e Lambert Van Velthuysen che lo avevano apertamente criticato: in una lettera a Henry Oldenburg nel 1675, si disse indignato del fatto che «certi sciocchi cartesiani, i quali hanno fama di condividere le mie idee, per allontanare da sé questo sospetto non abbiano cessato e non cessino tuttora di screditare ovunque le mie opinioni».
Amsterdam non fu tenera con Spinoza. Singolare, perciò, appare a Nadler l’elogio che il filosofo fa della sua città. Una città, scrive, dove «convivono in perfetta concordia uomini di tutte le nazionalità e di tutte le religioni; e, per affidare i propri beni a qualcuno, i cittadini di questo Stato si preoccupano soltanto di sapere se costui sia ricco o povero, o se sia solito agire in buona o in mala fede... La religione o la setta cui egli appartiene non li interessa affatto, perché ciò non contribuisce per nulla a far loro vincere o perdere la causa dinnanzi al giudice... E non vi è alcuna setta così odiata, i cui seguaci (quando non rechino danno ad alcuno, rendano a ciascuno il suo e vivano onestamente) non siano protetti e tutelati dall’autorità dei pubblici magistrati». Parole sorprendenti, dal momento che, quando furono scritte, uno dei più cari amici di Spinoza, Adriaan Koerbagh, era da poco morto in prigione, «condannato per le sue idee filosofiche e religiose proprio dalla città di Amsterdam, con un brutale atto di intolleranza istigato dal Concistoro calvinista».
Il fatto era accaduto tra il 1668 e il 1669 (pochi mesi, anzi, poche settimane prima che Spinoza vergasse l’«elogio di Amsterdam»). Koerbagh aveva dato alle stampe, proprio ad Amsterdam, un libro dal titolo Un giardino di fiori con ogni sorta di bellezze, in cui negava la paternità divina della Bibbia, attaccava l’elemento irrazionale presente nella maggior parte dei culti, con i loro dogmi, riti e «cerimonie superstiziose», e prendeva in giro tutte le rel i gi oni i s t i t uzi onali z z a t e , compresa quella della Chiesa riformata. Per sovraccarico Koerbagh scriveva in olandese, rendendo la sua opera accessibile al grande pubblico, e firmava il libro con il s uo nome. Ri s ul t a t o: nel 1668 fu imprigionato, si ammalò gravemente e il 5 ottobre del 1669 morì. Per Spinoza fu un colpo durissimo. Ma ciò non gli impedì di trattare in modo assai benevolo la città in cui tutto questo era accaduto.
Nadler sospetta che l’«elogio di Amsterdam» contenga, opportunamente dissimulata, «una buona dose di amara ironia». Più probabilmente si trattò di parole dettate dal calcolo, calcolo politico. Il filosofo, come Nadler ha ricostruito in un altro grande libro, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento (Einaudi), era un estimatore del più grande statista dell’epoca, Johan de Witt. Non è provato che i due abbiano avuto rapporti diretti (anche se il coevo Lucas sostiene di sì e lo stesso affermarono a fine Ottocento Jacob Freudenthal e, all’inizio del Novecento, Carl Gebhardt), ma tutti e due ebbero, scrive Nadler, «il privilegio di essere maltrattati e spergiurati dalle autorità religiose olandesi ed entrambi furono vilipesi e disprezzati dagli stessi nemici».
I democratici radicali come Spinoza e Koerbagh, radicalmente laici e difensori di una concezione più ampia della libertà, racconta Nadler, erano fermi oppositori degli «orangisti» e, a dispetto di non poche diversità di vedute, alleati naturali di de Witt. Un nemico dell’uomo politico giunse addirittura a dire che si avvertiva la presenza di de Witt nella stesura del Trattato teologico-politico. E questo nella battaglia tra orangisti (sostenitori della causa di Guglielmo I), «voetiani» (seguaci di Gisbertus Voetius, grande oppositore di Cartesio, nemici di de Witt), «cocceiani» (discepoli del teologo di Leida Johannes Cocceius, amici di de Witt) e perfino «sociniani» (ultimi adepti di una setta fiorita in Polonia alla fine del Cinquecento sotto la guida del teologo Fausto Sozzini, che continuò a battersi contro il dogma della trinità anche nella prima metà del Seicento) fu un elemento di destabilizzazione.
Uno dei nemici di de Witt arrivò a denunciare che, tra i libri presenti nella biblioteca dell’uomo politico, figurava anche quel Trattato, «forgiato all’inferno (di qui il titolo del libro di Steven Nadler) dall’ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan (de Witt, ndr) ». Al punto che anche de Witt — come Hobbes e gli allievi di Descartes — si sentì in dovere di prendere le distanze dal Trattato. Sostiene Abraham Gronovius, ricercatore all’Università di Leida, che quando a Spinoza fu riferito che de Witt aveva gradito assai poco il Trattato, «egli inviò qualcuno da Sua Eccellenza per dirgli che voleva parlare con lui, ma gli fu risposto che Sua Eccellenza non voleva vederlo varcare la soglia di casa». Nonostante ciò, il grande protagonista politico del «secolo d’oro olandese» non riuscì a salvarsi dagli odi che aveva accumulato per via del supposto rapporto con quel filosofo in odore di zolfo.
Luigi XIV, re di Francia, fece il resto. Nell’aprile del 1672 dichiarò guerra alle Province Unite e il 23 giugno i francesi entravano a Utrecht. De Witt fu la principale vittima di quel disastro militare. Fu accusato da pamphlet anonimi di «essere del tutto incompetente», di essersi messo in tasca parte dei fondi pubblici, di volere «vendere la Repubblica ai nemici, per continuare a governare su loro mandato». Il tutto accompagnato dalle consuete insinuazioni sui suoi rapporti con il «malvagio» autore del Trattato. La notte del 21 giugno 1672 de Witt fu ferito in modo abbastanza grave da un gruppetto di giovani di buona famiglia. Il 23 luglio suo fratello, Cornelis, fu arrestato con l’accusa di cospirazione. E quando Cornelis, a fine agosto, uscì di prigione, una folla si impadronì dei fratelli de Witt, li uccise, denudò i cadaveri, li appese a testa in giù e poi squartò i loro corpi. Spinoza ne fu sconvolto. Nel corso di un soggiorno all’Aja, quattro anni dopo, Gottfried Wilhelm Leibniz così annotò sul diario una visita al filosofo olandese: «Dopo cena, ho chiacchierato a lungo con Spinoza; mi ha raccontato che il giorno dell’orrenda uccisione dei de Witt voleva uscire di notte per andare a riporre una lapide sul luogo del massacro, con sopra scritto ultimi barbarorum (più o meno «i peggiori dei barbari», ndr); ma il suo padrone di casa era poi riuscito a impedirglielo, chiudendo la porta a chiave, per timore che anch’egli fosse fatto a pezzi».
Quelli erano i tempi. Del resto, osserva Nadler, «se la Repubblica delle Sette Province fosse stata davvero libera come Spinoza sembra voler far credere, non ci sarebbe stato alcun bisogno di scrivere il Trattato ». Trascorsero pochi mesi da quell’incontro con Leibniz, e Spinoza, uno dei più grandi filosofi della storia, morì. Aveva 44 anni. Le idee contenute nel Trattato, scrive Nadler, ispirarono rivoluzionari di fede repubblicana in Inghilterra, America e Francia. E, agli inizi dell’Età moderna, incoraggiarono la comparsa di movimenti contrari a una concezione settaria della religione che avrebbero cambiato la storia dell’umanità. Talché tutti dobbiamo in qualche modo considerarci eredi di quello scandaloso Trattato teologico-politico.
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