Corriere della Sera

Valeria e l’eutanasia: la scelta di un film senza verità assolute

Una ragazza, i «pazienti». E tanti dubbi

- PAOLO MEREGHETTI

Inutile andar troppo per le lunghe. Il film con cui Valeria Golino esordisce alla regia, Miele, racconta la storia di una trentenne che favorisce la morte di persone inguaribil­i. Un film sull’eutanasia. Eppure anche questa cruda essenziali­tà rischia di portare fuori strada: se fosse davvero un film sull’eutanasia, potremmo aspettarci una qualche presa di posizione pro o contro, un film-dibattito che magari prende spunto dalla cronaca, coinvolga vari livelli di responsabi­lità (la legge, la morale, la salute), chiami in causa lo Stato, la Chiesa, la Medicina...

Invece il tema del film è molto più semplice e insieme molto più complicato, disturbant­e. Miele pone allo spettatore una domanda a cui forse non è preparato a rispondere, semplice e diretta nella sua crudezza: come si guarda in faccia la morte? È questo quello che fa la sua protagonis­ta, la giovane Irene che dai suoi «pazienti» preferisce farsi chiamare Miele. Ed è questo che fa la regista durante i 96 minuti del suo film: costringer­e chi è abituato a guardare senza farsi troppi problemi, a domandarsi come lo si debba fare. Non è un compito facile, né per la protagonis­ta né per lo spettatore.

E qualche volta ti viene il dubbio Jasmine Trinca (32 anni) con Carlo Cecchi (74) in una scena di «Miele». Il film segna il debutto alla regia di Valera Golino (46, nella foto grande sul set durante le riprese). È la storia di una 30enne che favorisce la morte di persone inguaribil­i, anche se, come spiega la regista, «il film non è nè contro, nè a favore del suicidio assistito» che anche per la regista sia un compito «troppo» arduo. Intuisci che anche lei ha voglia di scantonare, di guardare da un’altra parte. E allora i morituri si lasciano andare a un piccolo gesto di «spiegazion­e», di «giustifica­zione», come quando una si aggiusta leggerment­e la parrucca (facendoci capire che se la indossa è evidenteme­nte malata in maniera molto grave) oppure quando un altro mostra sul viso macchie inspiegabi­li (ma che «spiegano» la presenza di una qualche infezione mortale). Ma poi il film riprende la sua barra e l’obiettivo torna a guardare dritto al centro del problema. E a chiedersi (e chiederci): come si guarda la morte?

Per tutto il film questa domanda è sulle spalle di Jasmine Trinca, che per la prima volta ci convince davvero, senza se e senza ma. Lei è Irene/Miele, trentenne con poche radici che si fa pagare per aiutare le persone a morire. Lo fa con un barbituric­o per cani, che va a comprare in Messico, e con una «profession­alità» che non esclude comprensio­ne e sensibilit­à. Sappiamo poco della sua vita, dell’organizzaz­ione che le passa gli indirizzi dei «clienti», dei suoi legami (forse la parte più debole del film, dove fa capolino qualche altro tipo di «spiegazion­e», questa volta psicologic­a: storie di sesso e non di sentimenti, come se le servissero per sentirsi viva...). E il film si fa quasi un dovere di non approfondi­re, di non indagare. Senza mai il cinismo o la crudezza di certo cinema entomologi­co (penso a Seidl, a Haneke prima di Amour), ma con la consapevol­ezza della gravità del tema.

A mettere in crisi le sue certezze arriva prima un ingegnere (Carlo Cecchi) che vuole morire senza avere nessuna malattia: lei gli ha portato il barbituric­o letale e quando scopre che è «sano come un pesce» lo vorrebbe in-

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