La tv specchio d’Italia Una grammatica dei nostri miti collettivi
Aldo Grasso contro i tuttologi e le astrazioni
Si comportano come quegli esploratori dell’800 che parlano dei baluba, «magari senza indignazione». Così scriveva Aldo Grasso nella recensione (uscita nel 2007) a un reportage di Francesco Piccolo («L’Italia spensierata»), a proposito dei tanti intellettuali che «hanno finalmente scoperto l’audience». Si tratta di personalità che si occupano dei mass media con uno «snobismo raffinato», talvolta irritante. Appaiono disinvolti. Ma, in effetti, guardano la tv rivelando una «sottile forma di discriminazione».
Proprio questi tuttologi sono tra i principali bersagli di Storie e culture della televisione italiana, il nuovo libro, curato da Grasso, appena uscito da Mondadori. Non una mera raccolta di testi. Ma un affresco cui hanno collaborato autori di diverse generazioni e diversa sensibilità. Da alcuni giovani ricercatori del CeRTA della Cattolica (Scaglioni e Penati) a studiosi italiani e stranieri (Bourdon, Ellis, Ortoleva, Canova, Richeri e Sibilla), da brillanti outsider (Mancuso e Panarari) a giornalisti «impegnati» (Damilano e Teotino), da operatori eccentrici (Freccero) a scrittori che esercitano la critica televisiva (Siti).
Adottando angolazioni non sempre contigue, queste voci confluiscono in un volume che, in una traccia già indicata dallo stesso Grasso in occasioni precedenti ( Storia della televisione italiana e Che cos’è la televisione), mira a elaborare una sorta di «storia sociale della televisione». Rivolti a investigare sul dialogo tra la tv e la società italiana, i vari saggi sono radunati in sezioni dedicate alla politica, alla lingua, alla letteratura, alla fiction, alla pubblicità, al mercato.
Siamo dinanzi a un medium totale: ovvero, un mezzo di comunicazione inserito in un sistema mediale complesso, capace di assorbire spunti dall’esterno e di influenzare in maniera decisiva la nostra quotidianità. Un dispositivo che, nell’assumere artifici propri di altri linguaggi (cinema e letteratura) — la narrazione e la rappresentazione audiovisiva — combina e distribuis ce immagini, suoni, prodotti , eventi, situazioni. Uno strumento aperto, che riesce ad avvicinare individui lontani geograficamente e socialmente, accomunati solo per il fatto di fruire i medesimi programmi. Un fenomeno sociologico: prodigioso, come già aveva sottolineato Umberto Eco in Apocalittici e integrati, nell’istituire gusti e propensioni, nel «creare cioè bisogni e tendenze, schemi di reazione e modalità di apprezzamento, tali da risultare (…) determinanti ai fini dell’evoluzione culturale, anche in campo estetico». Ma, soprattutto, uno specchio nel quale si riflette l’identità stessa del nostro Paese, con i suoi tic, il suo inconscio e le sue pulsioni spesso invisibili. «Leggere la televisione significa fare un’analisi sociologica più accurata di uno stage sul campo», ha osservato in un recente pamphlet Carlo Freccero.
Questo discorso — teso a disegnare l’orizzonte della «lunga durata» — costituisce il fondale sul quale Grasso articola la sua riflessione (nell’introduzione del libro), che salda diversi «generi». Da un lato, egli propone un’organica metodologia (a partire dall’analisi di tre «casi»: «Lascia o raddoppia?», «Portobello» e «Grande Fratello»). Dall’altro lato, si abbandona a una quasi involontaria autobiografia. Si confessa, si svela: scrive in prima persona. Racconta i suoi anni di formazione; le iniziali diffidenze del mondo accademico nei confronti di un ambito disciplinare «sfuggente» come quello legato all’industria culturale. Sul finire degli anni 50, i protagonisti dell’«adornismo di ritorno» parlano della tv come di una «fonte di massificazione e di volgarità». In tanti, con atteggiamenti elitari e conservatori, sostengono che è solo un apparecchio «pervasivo e diseducativo» (celebre la battuta di Moravia: «Il pubblico della televisione è un pubblico di serie B»). Nel tempo, quelle ostilità sono state superate. Almeno in parte.
Sembra preistoria. Oggi, la televisione è un tema molto dibattuto: spesso, con una superficialità che non è riservata all’arte, alla fotografia e al cinema. Se ne discetta un po’ ovunque, in un «ipertrofico chiacchiericcio»: nei talk show, sui giornali, in rete. È diventata a tal punto «visibile» da risultare trasparente. Una sovraesposizione che non le ha affatto giovato.
Quel che sembra sfuggire a molti è la specificità dei media. Sovente, se ne discute affidandosi a lettu- re ideologiche o a teorie passpartout (come la semiologia). «Che invidia per quei colleghi che, con una manciata di film o programmi televisivi e un’idea più fissa che ricevuta, riescono a spiegarti le tendenze di un secolo!», afferma Grasso. Che — «dissodatore appassionato» — si impegna ad arare terreni non ancora battuti. La sua strategia: «spigolare». La sfida, per lui, sta nell’abbandonare un «teoreticismo» inconsistente, per compiere un deciso ritorno alle «cose». Dunque, addio astrazioni vuote ed effimere. Meglio recuperare la potenza della concretezza. Superare le generalizzazioni, per porsi in ascolto dei «dettagli», dei «fatti»: perché «la filosofia nasce dopo la filologia». Riassaporare, per dirla con Barthes, «il piacere del testo». Interpretare, cioè, la televisione come si interpreta un quadro, una composizione musicale o un film. Come tessuto. Costruzione linguistica dotata di una precisa sintassi.
Bisogna imparare a confrontarsi con la «struttura», con la «scrittura» e con le «modalità formali» dei singoli programmi: vederli, esaminarli, raccontarli, documentarli, spiegarne le linee editoriali, collegandoli a un «contesto più generale di riferimento». Sono «suggestioni neglette che aspettano solo di essere colte, come un grumo che per sciogliersi ha bisogno di collegamenti, di effrazioni, di vorticose combinazioni». Non si deve trascurare mai il «proprio» della televisione. Occorre provare a delineare «mappe perfettibili», per districarsi nella geografia dei palinsesti. Insomma, limitarsi a «frammenti e (…) ritagli della Verità». Non nascondere preferenze e predilezioni. Ma consegnarsi — come fa Grasso nei suoi interventi sul «Corriere»— a una pratica critica militante, consapevolmente insicura, parziale, che trattenga nelle sue maglie anche capricci, irritazioni, insofferenze: «I tuoi punti deboli, le letture fatte, i film visti, le persone frequentate».
Però, c’è anche altro (tematiche su cui Grasso preferisce non soffer- marsi). Qualcosa di più ampio: quasi di originario. Perché, al di là delle oscillazioni che ne segnano la vicenda, la televisione ha una forza addirittura «metafisica». Essa è riuscita a imporre nella tarda modernità alcuni antichi sogni. Siamo di fronte a una straordinaria «macchina dell’esperienza», che esemplifica in maniera sorprendente il nostro desiderio di risiedere in una realtà condivisa, al di là della Babele delle lingue. Dilata la nostra rete di connessioni, con una pluralità di prospettive. Modella l’ambiente in cui ci muoviamo: oramai i fenomeni accadono solo se li si comunica. Incarna un’idea «mitica»: sin dalla classicità, infatti, l’uomo non ha mai abitato il mondo, ma solo la sua rappresentazione, le sue apparenze. Pur con la sua fragilità, la tv restituisce all’individuo la misura del suo «soggiorno terrestre», segnato dal rapido trascorrere dei giorni, delle ore, degli attimi.
Ma, forse, anche noi stiamo cadendo nell’errore di teorizzare astrattamente sulla tv. Un errore che Grasso non ci perdonerebbe.