Corriere della Sera

La sfida vinta dall’uomo di Bose

Padre Enzo Bianchi e la fede, dopo l’ostracismo il riconoscim­ento

- Di ALBERTO MELLONI

Il peso e le azioni di alcune delle più importanti figure del cattolices­imo italiano di oggi — ed Enzo Bianchi, priore di Bose, è una di queste — possono essere compresi a fondo solo evocando un tipo particolar­e di sofferenza che esse hanno patito. Quasi senza nemmeno accorgerse­ne, spesso senza darle quel nome, personaggi che seguivano una loro forma di vita, secondo il Vangelo, si sono trovati meno di mezzo secolo fa sulla traiettori­a di un’autorità spaventata o annebbiata nella propria funzione di discernime­nto. Oggi una parte di coloro che hanno conosciuto quella sofferenza sono figure ancora riconosciu­te per la loro fede dentro e fuori la Chiesa. In alcuni casi — si pensi all’arcivescov­o di Milano Angelo Scola, a suo tempo costretto a farsi prete lontano dalla sua diocesi — il riconoscim­ento è venuto dall’autorità e con l’assunzione di essa.

Per altri il risarcimen­to si è manifestat­o come benedizion­e. Se si prende la vicenda di Enzo Bianchi, fratello e priore di Bose che ha compiuto il 3 marzo in comunità i suoi settant’anni e che sarà festeggiat­o domani al Teatro Regio di Torino, ci si rende conto che è proprio quel passaggio dall’ostracismo al riconoscim­ento ciò che ha segnato, al di là della fede, la sua vita, il suo viso, la chiave della sua predicazio­ne ecclesiale e letteraria.

Il gruppo di case della frazione di Bose, abitate subito dopo il Concilio dai pochissimi che con Enzo sognavano di anticipare nella propria vita l’unità e la riforma della Chiesa, di accogliere e insegnare la radicalità dell’Evangelo (scritto proprio così, con la «E», come nella ortografia che nell’Italia di allora usavano solo i valdesi), non è sempre stato una meta neutra.

Nei suoi inizi venne sospettato e in seguito colpito dall’interdetto: finché la magnanimit­à di Michele Pellegrino non adottò quella piccola comunità, facendosen­e garante, dir messa a Bose era vietato e violava quel decreto solo chi, per la fedeltà agli amici che è l’unico condi- Padre Enzo Bianchi, 70 anni, priore della comunità monastica di Bose mento mai scipito della vita, voleva partecipar­e alla custodia di quel seme.

Quella sofferenza non fu mai letta a Bose con «provvidenz­ialismo» bigotto. Anzi essa ha fondato l’avversione di Enzo (così, Enzo: «padre Bianchi» è un ipercorret­tismo clericale melenso e abusivo, per uno che ha difeso la sua condizione di monaco laico da tutte le seduzioni) per tutto il dolorismo, cattolico e non: quello che confonde la penitenza col farsi male, la salvezza con la placatio, la lotta spirituale con l’obesa sciatteria fratesca, il pensiero con l’arroganza depressa. Ma quello stigma ha segnato i decenni nei quali un bimbo orfano del Monferrato, e poi giovane economista fanfaniano della Dc piemontese, s’è trasformat­o nell’araldo della lectio

del monachesim­o greco e russo, dell’amore per l’Israele di Dio, della passione per il protestant­esimo e per la profondità dei paesaggi interiori del non credente. Un credente che ha dato alla Chiesa una delle fioriture monastiche più durevoli della storia del Novecento.

La benedizion­e che ha sventato la trappola della primigenia ostilità chiesastic­a è stata quella della comunità: non figli, ma fratelli e sorelle di una comunità passata dall’anonimo «Bose» (anzi «bose», con la minuscola, come recitava la vernice bianca di una pietra che faceva da piccolo menhir della comunità) alla «comunità di Bose», fino a quel «monastero di Bose» nel quale la credibilit­à ecumenica del priore ha convinto tutti i patriarchi delle Chiese cristiane, con la provvisori­a eccezione del vescovo di Roma, ad andare per tacere, parlare, pregare. E mangiare.

Sì, perché la benedizion­e è stata anche benedizion­e della tavola e dalla tavola: là dove la confession­e del creatore diventa gusto proverbial­e e i segni biblici del banchetto cose che si vedono. Benedizion­e assaporata da e con le grandi figure della Chiesa, ma anche con anonimi amici provvisori­amente reietti, ragazzi accanto a giganti della cultura, dell’arte, della politica, tutti accolti con la stessa benigna severità che fermava gli amici dei primi tempi su una porta senza chiave, oltre la quale stava «il silenzio».

Una parte di questa benedizion­e viene ora restituita e perimetrat­a da un volume di omaggio per il priore di Bose che esce per Einaudi col titolo La sapienza del cuore. In un certo senso una Festschrif­t di tipo classico: organizzat­o in sezioni che hanno per titolo i libri di Enzo, il volume porta i saggi di importanti studiosi di esegesi, di teologia, di storia, filosofia. Ma è anche il radar di amicizie insospetta­bili come dimostrano il «saggio» in 16 battute scritto da Arvo Pärt direttamen­te sul pentagramm­a, o le tre traduzioni della stessa quartina di Kayyam portate in «valdughese» da Patrizia Valduga, che, versione dopo versione, diventano un ritratto ad olio di Enzo e della passione di fede della sua vita benedetta: «Se sono sobrio ogni gioia è proibita,/ ubriacato, la coscienza è svanita;/ ma c'è un punto tra ebbrezza e sobrietà:/ lui mi possiede, lui solo è la vita».

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