La sfida vinta dall’uomo di Bose
Padre Enzo Bianchi e la fede, dopo l’ostracismo il riconoscimento
Il peso e le azioni di alcune delle più importanti figure del cattolicesimo italiano di oggi — ed Enzo Bianchi, priore di Bose, è una di queste — possono essere compresi a fondo solo evocando un tipo particolare di sofferenza che esse hanno patito. Quasi senza nemmeno accorgersene, spesso senza darle quel nome, personaggi che seguivano una loro forma di vita, secondo il Vangelo, si sono trovati meno di mezzo secolo fa sulla traiettoria di un’autorità spaventata o annebbiata nella propria funzione di discernimento. Oggi una parte di coloro che hanno conosciuto quella sofferenza sono figure ancora riconosciute per la loro fede dentro e fuori la Chiesa. In alcuni casi — si pensi all’arcivescovo di Milano Angelo Scola, a suo tempo costretto a farsi prete lontano dalla sua diocesi — il riconoscimento è venuto dall’autorità e con l’assunzione di essa.
Per altri il risarcimento si è manifestato come benedizione. Se si prende la vicenda di Enzo Bianchi, fratello e priore di Bose che ha compiuto il 3 marzo in comunità i suoi settant’anni e che sarà festeggiato domani al Teatro Regio di Torino, ci si rende conto che è proprio quel passaggio dall’ostracismo al riconoscimento ciò che ha segnato, al di là della fede, la sua vita, il suo viso, la chiave della sua predicazione ecclesiale e letteraria.
Il gruppo di case della frazione di Bose, abitate subito dopo il Concilio dai pochissimi che con Enzo sognavano di anticipare nella propria vita l’unità e la riforma della Chiesa, di accogliere e insegnare la radicalità dell’Evangelo (scritto proprio così, con la «E», come nella ortografia che nell’Italia di allora usavano solo i valdesi), non è sempre stato una meta neutra.
Nei suoi inizi venne sospettato e in seguito colpito dall’interdetto: finché la magnanimità di Michele Pellegrino non adottò quella piccola comunità, facendosene garante, dir messa a Bose era vietato e violava quel decreto solo chi, per la fedeltà agli amici che è l’unico condi- Padre Enzo Bianchi, 70 anni, priore della comunità monastica di Bose mento mai scipito della vita, voleva partecipare alla custodia di quel seme.
Quella sofferenza non fu mai letta a Bose con «provvidenzialismo» bigotto. Anzi essa ha fondato l’avversione di Enzo (così, Enzo: «padre Bianchi» è un ipercorrettismo clericale melenso e abusivo, per uno che ha difeso la sua condizione di monaco laico da tutte le seduzioni) per tutto il dolorismo, cattolico e non: quello che confonde la penitenza col farsi male, la salvezza con la placatio, la lotta spirituale con l’obesa sciatteria fratesca, il pensiero con l’arroganza depressa. Ma quello stigma ha segnato i decenni nei quali un bimbo orfano del Monferrato, e poi giovane economista fanfaniano della Dc piemontese, s’è trasformato nell’araldo della lectio
del monachesimo greco e russo, dell’amore per l’Israele di Dio, della passione per il protestantesimo e per la profondità dei paesaggi interiori del non credente. Un credente che ha dato alla Chiesa una delle fioriture monastiche più durevoli della storia del Novecento.
La benedizione che ha sventato la trappola della primigenia ostilità chiesastica è stata quella della comunità: non figli, ma fratelli e sorelle di una comunità passata dall’anonimo «Bose» (anzi «bose», con la minuscola, come recitava la vernice bianca di una pietra che faceva da piccolo menhir della comunità) alla «comunità di Bose», fino a quel «monastero di Bose» nel quale la credibilità ecumenica del priore ha convinto tutti i patriarchi delle Chiese cristiane, con la provvisoria eccezione del vescovo di Roma, ad andare per tacere, parlare, pregare. E mangiare.
Sì, perché la benedizione è stata anche benedizione della tavola e dalla tavola: là dove la confessione del creatore diventa gusto proverbiale e i segni biblici del banchetto cose che si vedono. Benedizione assaporata da e con le grandi figure della Chiesa, ma anche con anonimi amici provvisoriamente reietti, ragazzi accanto a giganti della cultura, dell’arte, della politica, tutti accolti con la stessa benigna severità che fermava gli amici dei primi tempi su una porta senza chiave, oltre la quale stava «il silenzio».
Una parte di questa benedizione viene ora restituita e perimetrata da un volume di omaggio per il priore di Bose che esce per Einaudi col titolo La sapienza del cuore. In un certo senso una Festschrift di tipo classico: organizzato in sezioni che hanno per titolo i libri di Enzo, il volume porta i saggi di importanti studiosi di esegesi, di teologia, di storia, filosofia. Ma è anche il radar di amicizie insospettabili come dimostrano il «saggio» in 16 battute scritto da Arvo Pärt direttamente sul pentagramma, o le tre traduzioni della stessa quartina di Kayyam portate in «valdughese» da Patrizia Valduga, che, versione dopo versione, diventano un ritratto ad olio di Enzo e della passione di fede della sua vita benedetta: «Se sono sobrio ogni gioia è proibita,/ ubriacato, la coscienza è svanita;/ ma c'è un punto tra ebbrezza e sobrietà:/ lui mi possiede, lui solo è la vita».