Corriere della Sera

Tre donne nell’urgano della vita contadina

- Di MASSIMILIA­NO CHIAVARONE

Correvano avvolte nei loro scialli, con passi ansiosi mentre i piedi affondavan­o nella ghiaia. L’una reggeva la pancia dell’altra. Una ragazza e una donna, la figlia e sua madre. Quella in arrivo, stava per nascere pochi anni dopo la fine del primo conflitto mondiale, a Rudello, una frazione di Sarnico, piccolo paese del bergamasco, sul lago d’Iseo. Uno specchio d’acqua che lì chiamano anche Sebino. Agnese avrebbe visto la luce, causando la morte della mamma Gianna la Santa, moglie di Celestino ol Buèl.

Sono questi i filamenti iniziali di una storia che si dipana per trentadue anni, dal 1920 al 1952 e che racconta, nel suo titolo di esordio, Laura Mühlbauer ne La Sarneghera. L’evoluzione della società contadina dai primi del Novecento fino al secondo dopoguerra e alla ricostruzi­one non viene registrata. Tutto è immutabile e scandito secondo un copione mai scritto, ma tramandato come certi racconti e leggende che fanno parte della cultura orale, parlata, narrata, ma che mai tocca la superficie materica della carta. È una diffidenza atavica che la tiene lontana dai libri. Trae, invece, alimento dalla voce, anzi le voci che insufflano in miti e nenie quel mistero e quell’attrazione che serve a spiegare il mondo, i suoi fenomeni celesti, ma anche atmosferic­i. Come nel caso della Sarneghera del titolo, un violentiss­i- mo temporale che nasce proprio a Sarnico, come lascia intendere il nome. Pioggia e grandine funestano case e campi, sradicano alberi e frantumano tetti. E la forza immane che l’ha generata svanisce poi nel giro di poco tempo, lasciando quei posti immersi in un silenzio rappreso e irreale.

Una leggenda narra che la Sarneghera sia in realtà l’urlo di passione e sofferenza di una bella castellana del luogo e di un pescatore, due giovani che non poterono coronare il loro sogno d’amore e preferiron­o morire gettandosi nel lago. Le spire di questa credenza avvolgono anche la sorte delle tre donne protagonis­te del libro. Matilde la primogenit­a, Giulia, quella che c o nv i ns e l a madre a d a ndar e da l «dutùr» per l’ultimo parto e l’ultima nata Agnese. Tutte figlie della Gianna, stroncata a trentasett­e anni da una vita grama e dalle troppe gravidanze. Ad occuparsi di loro, per modo di dire, il padre Celestino Buelli, detto Celesto ol bubà (il babbo, il papà). Duro, chiuso, aggressivo, emblema di una società rurale, triste, fatta di gente ruvida e silenziosa, votata al lavoro e alle ora-

Ambientazi­one La vicenda narrata si svolge in una frazione di Sarnico, piccolo paese bergamasco sul lago d’Iseo Significat­o Il titolo è l’urlo di passione e sofferenza di una castellana e di un pescatore che non coronarono il loro amore

zioni: due realtà che si infilano ovunque, stravolgen­do i ritmi della vita, divorandol­a anche quando si tratta di mangiare, oppure di aver bisogno di riposo perché si è malati. Accade così che durante il pranzo, ancora con la bocca piena, le ragazze siano costrette dalla zia Fernanda a recitare il rosario, oppure quando Agnese è malata, il padre la prende a cinghiate, perché «la lasaruna, la è ancora nel lécc!».

Le tre donne crescono, ma saranno destinate a separarsi. Matilde resterà col bubà, mentre Giulia ed Agnese andranno via. E se la prima convola a nozze subito ma non potrà avere figli, la seconda si innamora del prete, don Sergio. Riesce, però, a risparmiar­si il sopraggiun­gere di altri dolori. Va a servizio da una zia, scopre una dimensione quotidiana più serena, fatta di piccole cose, come quando apprezza il sapone che profuma di stelle alpine. Poi incontra un uomo, si sposa e ha due figli. Non dimentica il suo unico e vero amore, ma almeno vince il destino infelice della leggenda della Sarneghera.

Un libro ben scritto, con uno stile asciutto ma pieno di vibrazioni, che restituisc­e l’immagine di un’Italia che appare lontana, ma che cattura per la forza istintiva che trasmette.

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