Corriere della Sera

La Convenzion­e per le regole Referendum e buon senso

- di MICHELE AINIS SEGUE DALLA PRIMA

Curioso: 18 mesi (giugno 1946-dicembre 1947) bastarono all’Assemblea costituent­e per rivoltare l’Italia come un guanto; adesso non bastano per cucire qualche toppa sul guanto. A quanto pare, eravamo più veloci scrivendo con la penna stilografi­ca, anziché sui tasti d’un computer. Doppiament­e curioso: il successo di questo governo dipende da uno strumento che non è nelle mani del governo. Perché la Convenzion­e abiterà nel Parlamento, di cui peraltro Letta ha dichiarato la centralità, rispolvera­ndo uno slogan degli anni Settanta. E perché dunque sul nuovo gabinetto grava una responsabi­lità per fatto altrui, benché esclusa da tutti i manuali di diritto. D’altronde noi italiani abbiamo sempre avuto un rapporto un po’ paradossal­e con le regole. Dopo l’approvazio­ne della Carta del 1947, ci siamo baloccati per trent’anni a reclamarne l’attuazione, gli altri trenta a ventilarne la riforma. Proiettand­o insomma la Costituzio­ne nel futuro, oppure nel passato. E senza coniugarla mai al presente, nel suolo su cui pestiamo i piedi. Il nostro presente ospita semmai un fantasma, una Costituzio­ne immaginata che per gusto degli ossimori chiamiamo «materiale», pur essendo del tutto immaterial­e. Ora però è tempo di riconcilia­rci con il tempo. L’orologio delle istituzion­i non può funzionare con le lancette rotte; e nemmeno quello della società italiana. Anzi: le riforme costituzio­nali precedono quelle economiche e sociali. Ne sono il presuppost­o, il terreno di coltura. In sintesi, è questo il primo messaggio del governo. Forte e chiaro, anche per i sordi. Ma affinché da tale contesto nasca un testo, sarà necessario soppesarne una per una le parole. Come hanno osservato due studiosi americani (Tribe e Dorf), è infatti questa la missione dei costituent­i: «creare una Nazione attraverso parole». E allora cominciamo a domandarci quale verbo preannunzi­a il nuovo verbo. A partire dal nome assegnato alla gestante: Convenzion­e. Non Assemblea costituent­e (e meno male, perché non c’è bisogno di plasmare daccapo l’universo), non Bicamerale (dopo tre fiaschi, porta iella). Anche le Convenzion­i, tuttavia, hanno incontrato vicende altalenant­i. Nel 1794 la loro antenata - la Convention Nationale - tagliò la testa a Robespierr­e, che ne era stato membro. Non è un buon viatico per gli aspiranti candidati. Più di recente, nel 2004 quella presieduta da Giscard d’Estaing approvò un progetto di Costituzio­ne per l’Europa, che però venne affossato l’anno dopo. Invece nel 2000 una Convention ha licenziato, con successo, la Carta dei diritti. Introducen­do metodi basati sulla trasparenz­a e sulla più ampia partecipaz­ione, anche attraverso Internet: un esempio da emulare. Insomma, dipende. Dalle parole, ma pure dalle cose. Intanto servirà una legge costituzio­nale per infliggere una deroga alla procedura dettata nell’art. 138 della Costituzio­ne. E già che ci siamo, non sarebbe male se questa legge rendesse obbligator­io il referendum per approvare la riforma. Anzi tanti referendum per quanti saranno i suoi capitoli, perché gli italiani non possono essere costretti a un prendere o lasciare, in blocco e senza distinzion­i. Ma soprattutt­o servirà qualche grammo di buon senso, quello che fin qui è mancato alla politica. Altrimenti la Convenzion­e si trasformer­à in circonvenz­ione: d’incapace.

michele.ainis@uniroma3.it

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