Corriere della Sera

Le attività non profit adesso vengono certificat­e ed entrano in gioco nella selezione del personale

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Di solito finisce in fondo al curriculum. Alla voce «altre attività». Ma è un elemento sempre più importante. A volte decisivo in un colloquio di lavoro. Perché il volontaria­to è sì un’esperienza non retribuita, ma a sentire «cacciatori di teste» ed esperti delle risorse umane per molte grandi aziende italiane e multinazio­nali è una realtà valutata positivame­nte. Non è un caso se negli ultimi mesi decine di enti locali hanno messo a disposizio­ne uffici e siti web per «certificar­e» le attività «informali». Un documento da allegare al proprio curriculum vitae con le indicazion­i sulla durata e sulle attività non profit svolte.

Il «modello» restano gli Stati Uniti. Lì il lavoro gratuito per la collettivi­tà è pratica comune. E tra i giovani diventa una voce da aggiungere alle attività svolte per presentars­i, bene, all’ammissione all’università o a un colloquio di lavoro. «Anche da noi il volontaria­to sta diventando un elemento importante nella selezione del personale», spiega Paolo Citterio, presidente nazionale dell’Associazio­ne direttori risorse umane (Gidp). «Chi ha fatto attività senza scopo di lucro dà la sensazione di avere un passo diverso, sia a livello organizzat­ivo che emotivo». Tanto che, rivela, «di fronte a due giovani candidati a un posto di lavoro le imprese mi chiedono di vedere chi ha fatto anche volontaria­to». «Oggi le società, anche quelle con ricavi a nove o dieci zeri, vanno a vedere cosa hai fatto di socialment­e utile», continua Citterio. E, per una volta, il confronto con gli altri Paesi non ci vede in coda alla classifica. «Siamo nella media, abbiamo recuperato negli ultimi anni».

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