Il Piave mormorava e fotografava
La grande svolta mediatica del primo conflitto mondiale
All’inizio la fotografia fu bandita. Subito dopo l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, le autorità vietarono non solo di scattare istantanee nella zona delle operazioni militari e nei territori adiacenti, ma addirittura di trasportare in quei luoghi apparecchi fotografici che non fossero stati debitamente sigillati. Ma era troppo pressante la domanda d’immagini sugli eventi del conflitto: una disposizione del genere non poteva reggere, come nota Luigi Tomassini nel suo saggio sull’argomento che compare sul nuovo numero degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa». Così fu il comando supremo ad ampliare enormemente i suoi reparti fotografici militari. Tre anni dopo, al momento della vittoria sull’Austria-Ungheria, i 23 operatori originari erano diventati 600 ed erano state realizzate oltre 150 mila riprese.
Il fascicolo degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa» è quasi integralmente dedicato alla Grande guerra, Un lavoro nel quale è impegnato anche il «Corriere della Sera», che con il Collection Day del 18 maggio aprirà le porte per un giorno a chiunque voglia portare fotografie e memorie di quegli eventi, che saranno digitalizzate, restituite e poi pubblicate online.
Del resto, ricorda Tomassini, qualcosa del genere fu avviato già negli anni del conflitto. Basti pensare che sulla «Domenica del Corriere» comparvero ben 1.273 fotografie di caduti, fornite in genere dalle famiglie, anche se poi la rubrica si trasformò, forse su pressione delle autorità, e finì per ospitare soltanto i volti dei decorati, non necessariamente morti sul campo.
Inevitabilmente, come illustrano nei loro saggi Barbara Bracco e Fabio Todero, i giornali, i manifesti e le cartoline di guerra rispecchiano una visione del tutto edulcorata di quanto avveniva al fronte. I soldati italiani appaiono sempre attivi, raggianti: spesso il modello dei disegnatori sono i paladini dell’interventismo, primo fra tutti Gabriele d’Annunzio. Solo dopo la sconfitta di Caporetto vengono raffigurati militari feriti o addirittura mutilati, quasi a fare dei loro corpi menomati il simbolo dell’offesa subita dal territorio sacro della patria.
Quanto ai nemici, se ne dà un’immagine disumanizzata e demonizzante, con evidenti venature razziste, specie nei fumetti di guerra destinati a circolare nelle pubblicazioni di trincea, su cui si sofferma un contributo di Roberto Bianchi. Aberrazioni propagandistiche, ovviamente, anche se purtroppo l’asprezza del conflitto scatenò davvero le pulsioni più distruttive. Il bilancio degli abusi compiuti nelle zone occupate dopo Caporetto dalle truppe nemiche, soprattutto tedesche, ma anche austro-ungariche, non lascia dubbi. Secondo quanto riferisce nel suo saggio Daniele Ceschin, oltre ai saccheggi e alle distruzioni che portarono alla morte di circa 23 mila civili per inedia o mancanza di cure sanitarie, vi furono 553 uccisioni. Gli stupri denunciati, solitamente di gruppo, furono un migliaio, certamente molti meno di quelli realmente avvenuti: in una cinquantina di casi determinarono la morte della vittima o di chi aveva cercato di proteggerla.
@A_Carioti