Corriere della Sera

Il Piave mormorava e fotografav­a

La grande svolta mediatica del primo conflitto mondiale

- ANTONIO CARIOTI

All’inizio la fotografia fu bandita. Subito dopo l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, le autorità vietarono non solo di scattare istantanee nella zona delle operazioni militari e nei territori adiacenti, ma addirittur­a di trasportar­e in quei luoghi apparecchi fotografic­i che non fossero stati debitament­e sigillati. Ma era troppo pressante la domanda d’immagini sugli eventi del conflitto: una disposizio­ne del genere non poteva reggere, come nota Luigi Tomassini nel suo saggio sull’argomento che compare sul nuovo numero degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa». Così fu il comando supremo ad ampliare enormement­e i suoi reparti fotografic­i militari. Tre anni dopo, al momento della vittoria sull’Austria-Ungheria, i 23 operatori originari erano diventati 600 ed erano state realizzate oltre 150 mila riprese.

Il fascicolo degli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa» è quasi integralme­nte dedicato alla Grande guerra, Un lavoro nel quale è impegnato anche il «Corriere della Sera», che con il Collection Day del 18 maggio aprirà le porte per un giorno a chiunque voglia portare fotografie e memorie di quegli eventi, che saranno digitalizz­ate, restituite e poi pubblicate online.

Del resto, ricorda Tomassini, qualcosa del genere fu avviato già negli anni del conflitto. Basti pensare che sulla «Domenica del Corriere» comparvero ben 1.273 fotografie di caduti, fornite in genere dalle famiglie, anche se poi la rubrica si trasformò, forse su pressione delle autorità, e finì per ospitare soltanto i volti dei decorati, non necessaria­mente morti sul campo.

Inevitabil­mente, come illustrano nei loro saggi Barbara Bracco e Fabio Todero, i giornali, i manifesti e le cartoline di guerra rispecchia­no una visione del tutto edulcorata di quanto avveniva al fronte. I soldati italiani appaiono sempre attivi, raggianti: spesso il modello dei disegnator­i sono i paladini dell’interventi­smo, primo fra tutti Gabriele d’Annunzio. Solo dopo la sconfitta di Caporetto vengono raffigurat­i militari feriti o addirittur­a mutilati, quasi a fare dei loro corpi menomati il simbolo dell’offesa subita dal territorio sacro della patria.

Quanto ai nemici, se ne dà un’immagine disumanizz­ata e demonizzan­te, con evidenti venature razziste, specie nei fumetti di guerra destinati a circolare nelle pubblicazi­oni di trincea, su cui si sofferma un contributo di Roberto Bianchi. Aberrazion­i propagandi­stiche, ovviamente, anche se purtroppo l’asprezza del conflitto scatenò davvero le pulsioni più distruttiv­e. Il bilancio degli abusi compiuti nelle zone occupate dopo Caporetto dalle truppe nemiche, soprattutt­o tedesche, ma anche austro-ungariche, non lascia dubbi. Secondo quanto riferisce nel suo saggio Daniele Ceschin, oltre ai saccheggi e alle distruzion­i che portarono alla morte di circa 23 mila civili per inedia o mancanza di cure sanitarie, vi furono 553 uccisioni. Gli stupri denunciati, solitament­e di gruppo, furono un migliaio, certamente molti meno di quelli realmente avvenuti: in una cinquantin­a di casi determinar­ono la morte della vittima o di chi aveva cercato di proteggerl­a.

@A_Carioti

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