Rapporto tra Stato, Regioni e enti locali Buoni propositi e molte incertezze
C aro direttore, il disegno di legge governativo sulle riforme costituzionali arriva in Parlamento con un impianto e con contenuti pressoché invariati, salvo alcuni dettagli, rispetto alla bozza anticipata il 12 marzo. Vale la pena dunque di tornare su di esso con osservazioni di merito. In primo luogo rimane un disegno di legge unico che assomma riforme alquanto eterogenee fra loro: quella del bicameralismo, quella del procedimento legislativo, quella dei rapporti Stato-Regione, oltre alla soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. È un errore, perché si tratta di argomenti diversi, anche se alcune connessioni non mancano. Il Parlamento dovrebbe esaminarli separatamente e, soprattutto, se si dovesse andare al referendum, dovrebbe essere consentito agli elettori di esprimersi su ciascuno di essi, senza essere costretti a un unico sì o un unico no. Sul bicameralismo restano valide le considerazioni che ho espresso nell’intervento sul Corriere del 18 marzo, aggiungendo qui che nel testo finale ricompare l’illogica attribuzione di seggi senatoriali di diritto a un gruppo di sindaci (quelli dei Comuni capoluogo di Regione) che, se approvata, consacrerebbe una ingiustificata discriminazione in termini di rappresentanza fra elettori delle città ed elettori che risiedono nei centri minori. Ma qui voglio soffermarmi sul tema dei rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali (il famoso Titolo V). L’ispirazione di questa parte del progetto è nettamente nel senso di una radicale ricentralizzazione delle competenze. Non solo si trasformano molte materie da «concorrenti» (dove lo Stato detta i principi e il resto spetta alla Regione) in materie e funzioni di competenza esclusiva dello Stato. Ciò, si badi, non solo per ambiti (come il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario o la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia) che per comune consenso vanno ricondotti allo Stato: ma anche per settori per i quali un certo decentramento legislativo, nella disciplina di dettaglio, è quanto mai opportuno: come l’ordinamento scolastico o la disciplina del lavoro pubblico (e come sarebbe opportuno anche per la tutela dell’ambiente, già oggi attribuita invece al solo Stato). Vero è che i presupposti da cui parte il progetto, di eliminare cioè tutte le materie «concorrenti», lasciando in vita solo competenze statali esclusive e competenze regionali, è poi rispettato solo formalmente: in molti casi si attribuisce allo Stato competenza solo per l’emanazione di «norme generali» (sull’istruzione o sul governo del territorio e l’urbanistica) o sulla «programmazione strategica» (?), come per il turismo. Onde il concorso della competenza regionale, cacciato dalla porta, rientra (necessariamente) dalla finestra. Se l’intento è di ridurre le incertezze e le controversie costituzionali sul riparto di competenze, esso non è affatto raggiunto, mentre ciò che servirebbe (anche a ridurre il contenzioso davanti alla Corte costituzionale) sono leggi statali (meglio se concertate al centro col Senato delle autonomie) che dettino davvero una disciplina «generale», delimitando in via legislativa prima che giurisdizionale gli spazi di intervento delle Regioni. Si aggiunga che si prevede nel progetto la cosiddetta «clausola di salvaguardia» che autorizzerebbe, in termini amplissimi, lo Stato a intervenire anche nelle materie spettanti alle Regioni «quando ricorrono esigenze di tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o di realizzazione di riforme economico-sociali di interesse nazionale»: rinverdendo così tutto l’armamentario (riforme economicosociali, interesse nazionale, esigenze unitarie) che già in passato è servito a giustificare quasi ogni «incursione» del legislatore statale sul terreno delle competenze regionali. Una clausola di salvaguardia può servire, ma in un sistema in cui il suo impiego sia condiviso dal Senato delle autonomie e le competenze regionali siano chiaramente definite e tutelate anche nei confronti degli interventi statali che si avvalgono di titoli «trasversali» come la tutela della concorrenza o il coordinamento della finanza pubblica. Basti pensare che utilizzando questi ultimi lo Stato ha potuto impunemente azzerare le competenze locali in tema di orari dei negozi o fissare il numero (!) massimo dei consiglieri di amministrazione delle società partecipate dalle Regioni. Per di più il progetto estende la potestà anche regolamentare dello Stato in tutto l’ambito delle sue competenze legislative; elimina la previsione di leggi speciali su intese dirette ad ampliare le competenze di singole Regioni (consentendo solo eventuali deleghe), sopprime le Province (su di che vi sarebbe molto da dire) e riserva allo Stato la legislazione sui principi dell’ordinamento locale e sulle funzioni fondamentali degli enti locali: così ribadendo e anzi accentuando la tradizionale contrapposizione italiana fra Regioni e Comuni, che spinge questi ultimi a cercare in sede centrale alleati contro le tentazioni accentratrici delle Regioni. Per anni siamo stati bombardati dalla invocazione di un fantomatico «federalismo» e dalle denunce di uno (spesso reale) eccesso di centralismo statale. Ora il progetto governativo di riforma non solo inverte il senso di marcia, ma torna a fondare una legislazione e una prassi quanto mai diffidenti nei confronti delle autonomie territoriali: nonostante che fra i principi fondamentali della Costituzione ancora vigente e ,nelle tradizioni più illustri del pensiero politico repubblicano, trovi ampio riconoscimento il principio di autonomia, a cui la Repubblica dovrebbe adeguare «i principi e i metodi della sua legislazione» (articolo 5). Il Parlamento vuole davvero battere questa strada, considerando le autonomie territoriali sostanzialmente solo come fonti di sprechi e di «costi della politica»? E le Regioni, specie quelle in cui la tradizione del pensiero e della prassi autonomistica è più radicata, non hanno nulla da dire?