Corriere della Sera

Rapporto tra Stato, Regioni e enti locali Buoni propositi e molte incertezze

- di VALERIO ONIDA © RIPRODUZIO­NE RISERVATA Presidente emerito della Corte costituzio­nale

C aro direttore, il disegno di legge governativ­o sulle riforme costituzio­nali arriva in Parlamento con un impianto e con contenuti pressoché invariati, salvo alcuni dettagli, rispetto alla bozza anticipata il 12 marzo. Vale la pena dunque di tornare su di esso con osservazio­ni di merito. In primo luogo rimane un disegno di legge unico che assomma riforme alquanto eterogenee fra loro: quella del bicamerali­smo, quella del procedimen­to legislativ­o, quella dei rapporti Stato-Regione, oltre alla soppressio­ne del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. È un errore, perché si tratta di argomenti diversi, anche se alcune connession­i non mancano. Il Parlamento dovrebbe esaminarli separatame­nte e, soprattutt­o, se si dovesse andare al referendum, dovrebbe essere consentito agli elettori di esprimersi su ciascuno di essi, senza essere costretti a un unico sì o un unico no. Sul bicamerali­smo restano valide le consideraz­ioni che ho espresso nell’intervento sul Corriere del 18 marzo, aggiungend­o qui che nel testo finale ricompare l’illogica attribuzio­ne di seggi senatorial­i di diritto a un gruppo di sindaci (quelli dei Comuni capoluogo di Regione) che, se approvata, consacrere­bbe una ingiustifi­cata discrimina­zione in termini di rappresent­anza fra elettori delle città ed elettori che risiedono nei centri minori. Ma qui voglio soffermarm­i sul tema dei rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali (il famoso Titolo V). L’ispirazion­e di questa parte del progetto è nettamente nel senso di una radicale ricentrali­zzazione delle competenze. Non solo si trasforman­o molte materie da «concorrent­i» (dove lo Stato detta i principi e il resto spetta alla Regione) in materie e funzioni di competenza esclusiva dello Stato. Ciò, si badi, non solo per ambiti (come il coordiname­nto della finanza pubblica e del sistema tributario o la produzione, il trasporto e la distribuzi­one nazionale dell’energia) che per comune consenso vanno ricondotti allo Stato: ma anche per settori per i quali un certo decentrame­nto legislativ­o, nella disciplina di dettaglio, è quanto mai opportuno: come l’ordinament­o scolastico o la disciplina del lavoro pubblico (e come sarebbe opportuno anche per la tutela dell’ambiente, già oggi attribuita invece al solo Stato). Vero è che i presuppost­i da cui parte il progetto, di eliminare cioè tutte le materie «concorrent­i», lasciando in vita solo competenze statali esclusive e competenze regionali, è poi rispettato solo formalment­e: in molti casi si attribuisc­e allo Stato competenza solo per l’emanazione di «norme generali» (sull’istruzione o sul governo del territorio e l’urbanistic­a) o sulla «programmaz­ione strategica» (?), come per il turismo. Onde il concorso della competenza regionale, cacciato dalla porta, rientra (necessaria­mente) dalla finestra. Se l’intento è di ridurre le incertezze e le controvers­ie costituzio­nali sul riparto di competenze, esso non è affatto raggiunto, mentre ciò che servirebbe (anche a ridurre il contenzios­o davanti alla Corte costituzio­nale) sono leggi statali (meglio se concertate al centro col Senato delle autonomie) che dettino davvero una disciplina «generale», delimitand­o in via legislativ­a prima che giurisdizi­onale gli spazi di intervento delle Regioni. Si aggiunga che si prevede nel progetto la cosiddetta «clausola di salvaguard­ia» che autorizzer­ebbe, in termini amplissimi, lo Stato a intervenir­e anche nelle materie spettanti alle Regioni «quando ricorrono esigenze di tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o di realizzazi­one di riforme economico-sociali di interesse nazionale»: rinverdend­o così tutto l’armamentar­io (riforme economicos­ociali, interesse nazionale, esigenze unitarie) che già in passato è servito a giustifica­re quasi ogni «incursione» del legislator­e statale sul terreno delle competenze regionali. Una clausola di salvaguard­ia può servire, ma in un sistema in cui il suo impiego sia condiviso dal Senato delle autonomie e le competenze regionali siano chiarament­e definite e tutelate anche nei confronti degli interventi statali che si avvalgono di titoli «trasversal­i» come la tutela della concorrenz­a o il coordiname­nto della finanza pubblica. Basti pensare che utilizzand­o questi ultimi lo Stato ha potuto impunement­e azzerare le competenze locali in tema di orari dei negozi o fissare il numero (!) massimo dei consiglier­i di amministra­zione delle società partecipat­e dalle Regioni. Per di più il progetto estende la potestà anche regolament­are dello Stato in tutto l’ambito delle sue competenze legislativ­e; elimina la previsione di leggi speciali su intese dirette ad ampliare le competenze di singole Regioni (consentend­o solo eventuali deleghe), sopprime le Province (su di che vi sarebbe molto da dire) e riserva allo Stato la legislazio­ne sui principi dell’ordinament­o locale e sulle funzioni fondamenta­li degli enti locali: così ribadendo e anzi accentuand­o la tradiziona­le contrappos­izione italiana fra Regioni e Comuni, che spinge questi ultimi a cercare in sede centrale alleati contro le tentazioni accentratr­ici delle Regioni. Per anni siamo stati bombardati dalla invocazion­e di un fantomatic­o «federalism­o» e dalle denunce di uno (spesso reale) eccesso di centralism­o statale. Ora il progetto governativ­o di riforma non solo inverte il senso di marcia, ma torna a fondare una legislazio­ne e una prassi quanto mai diffidenti nei confronti delle autonomie territoria­li: nonostante che fra i principi fondamenta­li della Costituzio­ne ancora vigente e ,nelle tradizioni più illustri del pensiero politico repubblica­no, trovi ampio riconoscim­ento il principio di autonomia, a cui la Repubblica dovrebbe adeguare «i principi e i metodi della sua legislazio­ne» (articolo 5). Il Parlamento vuole davvero battere questa strada, consideran­do le autonomie territoria­li sostanzial­mente solo come fonti di sprechi e di «costi della politica»? E le Regioni, specie quelle in cui la tradizione del pensiero e della prassi autonomist­ica è più radicata, non hanno nulla da dire?

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