Berlioz incanta alla Scala Una festa per Pappano
Undici minuti di applausi a «Les Troyens» Ottimo il cast, imponente la scenografia
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Una sera di festa. Un’opera che si fissa nei ricordi. Alla Scala, martedì 8 aprile, Les Troyens di Hector Berlioz hanno riportato il teatro del Piermarini alla sua vocazione di grandezza. Peccato l’inizio alle 17.30 (con l’aggravante del giorno feriale) in una Milano in fibrillazione per la Fiera del mobile. Forse per tale motivo c’erano posti vuoti in platea e nei palchi. Tanti applausi, oltre 11 minuti alla fine. Lo spettacolo è piaciuto.
Non entreremo nei dettagli della genesi e del valore dell’opera: rimandiamo al bell’articolo di Paolo Isotta, uscito sul Corriere di lunedì 7 aprile. Diremo soltanto che, nonostante gli ingenerosi giudizi su Les Troyens di personaggi quali Claude Debussy o Pierre Boulez, il capolavoro resta godibilissimo per noi; anzi, forse oggi più che in passato si comprende la genialità di questo compositore che scrisse anche il Grand traité d’instrumentation et d’orchestration modernes (prima edizione 1844). E come pochi altri conosceva l’arte dei suoni.
Il direttore, Antonio Pappano (era al suo esordio lirico alla Scala), ha dato prova di essere una bacchetta di primo livello, anche se lui ha scelto di non utilizzarla. Ha ben governato la complessità dell’opera, nonostante la musica giungesse, oltre che dalla buca dell’orchestra, da ripetuti interventi di strumenti dietro le quinte e da un palchetto di proscenio. Dovendo essere rigorosi, noteremo che alla fine del primo atto si è avvertita una sfasatura tra il podio e gli strumenti del palco laterale (numero 11 della partitura): Pappano, però, non si è fatto condizionare dal piccolo problema. È un altro suo merito. Che aggiungere? A nostro giudizio ha lavorato molto; si è notata una ricerca di colore del suono. Proprio quel suono che taluni avrebbero forse desiderato qui più forte, là più debole, magari comparando la sua ad altre esecuzioni: ma non si dimentichi che Pappano ha condotto il grande organico come non accadeva da tempo alla Scala. Anche il coro — maestro ne è Bruno Casoni — ha goduto di questo beneficio. Cassandra, personaggio chiave nei primi due atti, era il soprano Anna Caterina Antonacci. Bella voce, anche se non potentissima (eccellente negli acuti, poco sonora nei gravi), ha saputo immedesimarsi nella parte con una dizione francese di ottima qualità. Ha meritato i calorosi applausi.
Parole simili potremmo spenderle per Daniela Barcellona, nelle non facili vesti di Didone, protagonista nei tre altri atti. La voce era calda, perfettamente nello stile voluto dal compositore: un mezzo soprano con capacità di estensioni verso l’acuto. Il critico deve comunque notare una non perfetta dizione nella continuità (talune «e» chiuse sono diventate «a»). Ma siamo dinanzi a un’interprete di tutto rispetto. Ci è inoltre sembrato un Enea da manuale il protagonista maschile dell’opera, il tenore Gregory Kunde. Nonostante abbia un’età che oggi in Italia è diventata quella del prepensionamento, dimostra singolare freschezza vocale. Era perfettamente calato nel ruolo anche se i peli bianchi contrastavano con l’amoroso e mitico eroe interpretato. All’interno delle diverse note acute che era chiamato a cantare, va lodato — aria finale del V atto — per un do naturale sovracuto.
Fabio Capitanucci, baritono, era Corebo. Colore e tecnica vocali degne di nota, presenza gradevole; tuttavia ci è sembrato che la sua fosse una voce inadatta al peso e alla potenza del personaggio (forse diventa eccellente in un ruolo donizettiano). Quanto a Iopa, il tenore Shalva Mukeria, nonostante la voce limpida e le buone estensioni, dobbiamo segnalare la cattiva pronuncia francese. Per esempio nel IV atto: « O blonde Cérès/ Quand à nos guérets» , con quella «é» che si dovrebbe rendere «e»: le ha entrambe trasformate all’inglese in «i». Peccato. Sui costumi di Moritz Junge, resi ottocenteschi, eviteremo le censure ricordando che non recavano fastidio. Anche le scene di Es Devlin hanno reso l’insieme gradevole. Della riuscita regia di David McVicar si potrebbe segnalare qualche lieve licenza, come l’abbraccio di Enea con lo spettro di Ettore nel II atto: tollerabile in un’opera di teatro surrealista, stona per un ricreatore dell’Eneide.
Altro non aggiungiamo, se non il fatto che Berlioz emoziona ancora, come la «pulcherrima Dido» di Virgilio. Ma qui, i desiderosi, potrebbero ripercorrere tutte le fasi, al di là delle note, che si celebrano nel IV libro del poema latino. Chi scrive ama il commento di Pease, P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus (Cambridge, Ma. 1935; ristampato a Darmstadt nel 1963). Lo considera la corte di cassazione dell’«affanno amoroso» della delusa regina dalla «sfolgorante bellezza».