Tenere fragilità nel viaggio di coppia
Due passi sono Carullo e Minasi mettono in luce attraverso l’amore le debolezze della vita d’oggi
S arebbe stato possibile accorgersi di un principio di declino del teatro di regia già negli anni Novanta con la nascita d’una serie di gruppi. Per teatro di regia s’intende regia critica: analisi di un testo e messa in luce (da parte di un lettore forte) della sua vera natura. Ecco, la parola «forte» è cruciale. Il teatro di regia — per convinzione antropologica, culturale, abitudinaria — è legato a un’idea maschile. Il regista è un uomo, in quest’uomo c’è la potenza, perfino l’onnipotenza. L’attore, in relazione a quel testo scuoiato vivo, non è che un agente — immedesimato o straniato che sia dal personaggio.
Con il teatro dei gruppi la faccenda è tutta diversa. Raffaello Sanzio, Fanny e Alexander, Motus, Teatro delle Albe, Valdoca, Babilonia, essi non solo appartengono a un’area geografica ben delimitata, ma sono costituiti, almeno nella fase iniziale, da un uomo e una donna. La donna, come elemento «forte» (ma qui le virgolette sono di rigore e hanno un diverso senso), è entrata in scena. Nello stesso tempo, addentrandoci nel nuovo secolo la donna si afferma come regista: la regia non declina nel senso che s’impoverisce e muore, ma nel senso che si trasforma, si tinge di nuovo. La mia idea è che l’attore ora non è più né dentro né fuori (del personaggio): gli è, bensì, vicino. Attore e personaggio, regia e spettacolo vanno insieme, di pari passo. Non ci sono più padri (o possenti madri), ci sono fratelli e sorelle. E cosa sono, o cosa danno l’impressione di essere, Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, se non fratello e sorella?
In realtà, nella realtà della loro vita quotidiana, stando al loro spettacolo Due passi sono, appaiono invece una coppia — una coppia nello spettacolo e una coppia nella vita. Ma ciò che colpisce è la cadenza emotiva di tale coppia. Intanto, anche Carullo-Minasi costituiscono appunto un duo, come i gruppi degli anni Novanta. Poi sono un duo di insolita provenienza: non più regioni ricche, Veneto e Emilia-Romagna, bensì meridione d’Italia. Infine (ma questo è il dato lancinante) Giuseppe è nato a Reggio Calabria e Cristiana a Messina e giustamente Due passi sono ha vinto un sacco di premi e può girare l’Italia.
Ora sono al Vascello di Roma, li vediamo laggiù, chiusi in un angolo, hanno sotto i piedi uno spazio a quadri bianchi e neri e davanti un piccolo tappeto che ci dice: Salve. Tutto è minuscolo, in questo spettacolo, tutto è delicato, fragile, fonte di indicibile tenerezza. Giuseppe (che lei chiama Pe, lei che da lui viene chiamata Cri) è malato, deve stare attento a tutto, si nutre solo di pillole; Cri è una devota e amorosa guardiana della sua salute. Ma questa benedetta salute sempre a rischio altro non è che l’uguale, fragile salute di tutti noi, molto più distratti di loro. Pe e Cri sono invece attentissimi — nella a volte filosofica, tutta platonica svagatezza del loro discorso. Sono attenti fino allo spasimo, fino al puro e semplice desiderio di vita, di abbracci, di sentimento.
Data la condizione di malattia, o di convalescenza, un abbraccio sarebbe pericoloso. Eppure il desiderio di amore — come la luce delle stelle, o come il moto del mare se lo si vede da vicino, non più dalla finestra, non più da lontano — il desiderio dell’amore «avendo avuto la paradossale e sacrale fortuna di toccarla in vita» è più forte della morte, o della sua paura. Come potrebbe finire la loro storia se non con uno slancio, alzarsi da quelle sedie rosa, stringersi l’uno all’altra, e vestirsi per una cerimonia che li unirà per tutto il tempo che avranno?