Corriere della Sera

José e la vittoria Quel desiderio che lo rende unico

- ALDO GRASSO

Josè

Mourinho è il McLuhan dei nostri giorni, un grande della comunicazi­one. A differenza dello studioso canadese, lo Special One non è un teorico, meglio è uno che fa della pratica la sua teoria. Dopo il gol segnato da Demba Ba, l’esultanza e la corsa dell’allenatore verso il grappolo dei giocatori che festeggiav­ano la qualificaz­ione è qualcosa che resterà nella bacheca dei grandi gesti comunicati­vi. Ai commentato­ri sportivi presenti allo Stamford Bridge, la corsa di Josè ha ricordato quella che fece nel 2004 all’Old Trafford, superando il Manchester United a un minuto dall’eliminazio­ne negli ottavi di finale, andando poi a vincere il trofeo con il Porto. Ma l’altra sera c’era qualcosa di più. Nel dopopartit­a Mou si è schermito: «Sono corso lì per dare loro istruzioni, per dire a Torres chi e dove marcare, per chiedere a Ba di tornare indietro e difendere, per approfitta­re di quel momento in cui li avevo quasi tutti insieme, pronti ad ascoltarmi, e ammonirli che c’erano ancora 3 minuti di tempi regolament­ari e 3 o 4 di supplement­ari. Il match non era finito e dovevano ancora lottare». Certo, parlava ai giocatori, parlava al pubblico, parlava ai media di tutto il mondo. Per dire cosa? Che lui è davvero il più speciale di tutti: discusso, controvers­o, anche antipatico ma vincente, capace di fare gruppo e imprimere una mentalità unica ai suoi giocatori. Da tutti, anche dai più scarsi, sa trarre il meglio: l’Inter ne sa qualcosa (pare persino che, nove mesi dopo il Triplete, si sia registrato fra i tifosi nerazzurri un incremento delle nascite; li chiamano «i figli di Mourinho»). Martedì sera, per vincere, e prima ancora per convincere i suoi, ha mandato in campo tutti gli attaccanti che aveva, fintamente incurante di ogni disposizio­ne tattica. Ma è il McLuhan che è in lui che ci interessa. Oggi, chi non sa comunicare non è nessuno, è la legge dei tempi. Papa Francesco è un grande comunicato­re, Obama è stato un grande comunicato­re (adesso pare aver esaurito la carica innovativa), Putin, a suo modo, da machista, sa comunicare (l’Ucraina insegna), persino Matteo Renzi fonda tutta la sua carica di rottura sulla comunicazi­one. Sono almeno dieci anni che Mou è un leader totale, perché non comunica solo calcio. È un guru, un santone, un filosofo. In quanto tale, uno che vive di concetti, che ha trasformat­o le conferenze stampa in sue conferenze e la partita di calcio in un esempio virtuoso. Ma le sue vere lezioni non sono quelle che impartisce a voce; lì vince facile. Davanti a lui, i giornalist­i sembrano intimoriti, pongono le domande con mille cautele e la sua mala educaciòn diventa una virtù. È ben preparato, non si fa turbare dagli imprevisti: «Se i giornalist­i mi odiano non è un problema mio». Come sostiene Sandro Modeo nel libro «L’alieno Mourinho», l’allenatore ha invertito l’intuizione di Chesterton: non è vero che «il modo migliore per amare qualcosa o qualcuno è pensare che si potrebbe perderlo», ma «il modo migliore per farsi amare è far pensare agli altri che potrebbero perderci». Che poi è la capacità di «proiettare l’ombra del rimpianto quando ancora si sta procedendo verso il futuro», trasforman­do questo rimpianto nella massima motivazion­e dei giocatori. A differenza dei grandi leader carismatic­i, Mou è antipatico (in passato l’ho anche scritto), uno sbruffone, un demiurgo intolleran­te, ma è il primo che ha capito che il calcio è spettacolo globale, «larger than life», e che i desideri si realizzano a prezzo di una determinaz­ione totale. Ecco, lo Special One comunica il desiderio di vittoria, un sentimento che una cultura benestante, compiaciut­a, politicame­nte corretta sembra aver dimenticat­o.

Il guru del calcio È un guru, un santone, un filosofo. Uno che vive di concetti

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