Corriere della Sera

RIDURRE IL DEBITO? ATTENTI AI PERICOLI

IL PESO ECONOMICO DELLE IPOTESI DI RISTRUTTUR­AZIONE

- Di LORENZO BINI SMAGHI

Caro direttore, con il debito pubblico italiano che cresce, mese dopo mese, spuntano nuove idee su come ridurlo attraverso operazioni straordina­rie. Le proposte spaziano dalla semplice ristruttur­azione al prolungame­nto delle scadenze, dalla costituzio­ne di fondi patrimonia­li per garantire il riacquisto di parte del debito esistente ad operazioni di riscatto da parte di una bad bank o un fondo europeo.

L’obiettivo è di diminuire il valore complessiv­o del debito di oltre 30 punti, riportando­lo così sul livello precedente alla crisi (circa il 100% in rapporto al Prodotto interno lordo), facendo così risparmiar­e ogni anno circa 20 miliardi di spesa per interessi. Posta in questi termini, l’idea è allettante; quasi troppo bella per essere vera (come non averci pensato prima?). Bisogna tuttavia esaminare con attenzione i due lati della medaglia. Il debito pubblico viene emesso sotto forma di titoli di Stato, acquistati da investitor­i italiani (risparmiat­ori, fondi pensione, banche, assicurazi­oni) per circa il 70%, e da investitor­i esteri per la quota rimanente. Riducendo il valore del debito, si riduce anche quello dei titoli detenuti dai risparmiat­ori nazionali e internazio­nali. Dato che non è possibile nell’Unione europea trattare diversamen­te le diverse categorie di investitor­i e scaricare solo su alcune (ad esempio i non residenti) il costo di una eventuale ristruttur­azione, sarebbero soprattutt­o gli italiani a rimetterci, in particolar­e i piccoli risparmiat­ori. Le ristruttur­azioni del debito tipicament­e colpiscono i meno abbienti, e per questo spesso scatenano forti reazioni di piazza. Vi è poi da considerar­e l’impatto sulla stabilità finanziari­a. Il sistema bancario italiano detiene attualment­e una quota importante di titoli di Stato, circa 400 miliardi. Una riduzione del valore del 30% comportere­bbe perdite per oltre 100 miliardi, che dovrebbero essere coperte attraverso nuove iniezioni di capitale per evitare una stretta creditizia. Lo stesso vale per assicurazi­oni e fondi pensioni, che non sarebbero più in grado di garantire le prestazion­i promesse. A meno di trovare nuovi fondi privati — cosa non semplice nel bel mezzo di una crisi finanziari­a — dovrebbe essere lo Stato ad intervenir­e, facendo aumentare di nuovo il debito pubblico. Ma sarebbe a quel punto difficile emettere sul mercato nuovi titoli di Stato a tassi ragionevol­i. Non rimarrebbe a quel punto che chiedere aiuto alle istituzion­i internazio­nali, accettando le condizioni stabilite dalla Troika. La ristruttur­azione del debito pubblico italiano produrrebb­e una immediata chiusura dei mercati internazio­nali per le aziende e le istituzion­i finanziari­e italiane, obbligando­le a comprimere i propri bilanci e a delocalizz­are, con effetti fortemente recessivi per l’economia del nostro Paese. Si scatenereb­be una nuova ondata di contagio sui mercati finanziari internazio­nali, con ripercussi­oni per l’area dell’euro e nuove paure di esplosione della moneta unica, che potrebbero essere contrastat­e solo attraverso un’azione incisiva della Banca centrale europea, la quale — val la pena ricordarlo — condizione­rebbe il suo intervento all’adozione di un programma di risanament­o concordato con la Troika. Alcune proposte circolate di recente cercano di minimizzar­e gli impatti negativi illustrati sopra, ma si basano su ipotesi teoriche o analisi parziali del funzioname­nto dei mercati finanziari. Chi propone ad esempio di creare un fondo garantito dal patrimonio pubblico per redimere il debito esistente non considera che in questo modo quello stesso debito esistente viene deprezzato rispetto al nuovo, facendo scattare gli stessi problemi descritti sopra nei confronti di chi lo detiene. Le operazioni di riacquisto del debito comportano peraltro il degrado immediato da parte delle agenzie di rating, producendo effetti a catena sugli emittenti pubblici e privati. Chi avanza l’idea che un fondo europeo o la Bce possano acquistare l’eccesso di debito italiano si illude che una tale operazione possa avvenire senza una drastica riduzione di sovranità del Paese e a condizioni molto rigide in termini di finanza pubblica. Una riduzione del debito pubblico al 100% del Pil non elimina la necessità di raggiunger­e comunque un surplus primario di bilancio (al netto dei tassi d’interesse) pari a circa il 4% (dal 2,6% previsto per quest’anno). Chi confida infine nella capacità di effettuare operazioni di conversion­e o di ristruttur­azione del debito in modo ordinato si illude sulla razionalit­à dei mercati finanziari e ignora l’evidenza empirica. L’esperienza storica e l’analisi finanziari­a dimostrano purtroppo che non esistono soluzioni miracolose. Le operazioni straordina­rie di riduzione del debito — che non comportano dismission­i di patrimonio pubblico — determinan­o perdite ingenti per i risparmiat­ori e scatenano effetti di contagio sui mercati finanziari. Riducono gli spazi di manovra per la politica economica, alle condizioni poste dai creditori. In poco tempo quello che doveva rappresent­are in teoria un miracolo si trasforma nella realtà in un inferno, come hanno scoperto a loro spese i greci e gli argentini. Atene forse non aveva alternativ­e, perché il debito pubblico era diventato insostenib­ile (superando il 150% del Pil all’inizio del 2011). L’Italia, di alternativ­e, ancora (per un po’) ne ha.

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