Corriere della Sera

Iraq, la controffen­siva va avanti Ma i combattent­i del Kurdistan avvertono: «Le nostre armi non bastano per la vittoria»

- Lorenzo Cremonesi

chiato su entrambi i fronti, con le truppe Usa di nuovo in campo. Le dimissioni del premier sciita Nouri al Maliki a Bagdad sembrano inoltre poter causare la rottura della già precaria alleanza tra grandi tribù sunnite irachene e gruppi estremisti. E tuttavia le alleanze sono labili, gli equilibri instabili. Le vittorie di oggi possono trasformar­si rapidament­e nelle sconfitte di domani. Il paradosso, che illumina la complessit­à di questo conflitto, è che al momento gli americani appaiano combattere dalla parte di quello stesso dittatore Bashar Assad a Damasco che meno di un anno fa minacciava­no di bombardare accusandol­o di utilizzare le armi chimiche ed essere il «macellaio» della sua gente.

La caducità della situazione si coglie anche nell’evidente debolezza dei militari curdi. «Peshmerga» significa «quelli che affrontano la morte». E’ sempre stato il nome fiero, lo slogan antico di tante battaglie e la bandiera gloriosa dei celebri guerriglie­ri delle montagne. Ma questa volta combattono Aree difese dai curdi Raid Usa

Fiume Tigri con estrema cautela. Dopo la sorpresa e le sconfitte subite solo due settimane fa, preferisco­no adesso attendere la copertura aerea americana prima di avanzare. Avviene su tutti gli oltre 1.050 chilometri di fronte che separano la loro enclave autonoma dalle regioni controllat­e dagli estremisti sunniti. «Senza l’intervento dell’aviazione americana saremmo costretti sulla difensiva. Abbiamo visto che le armi in mano ai nostri nemici sono molto migliori delle nostre, sarebbe un inutile massacro», ammettono praticamen­te all’unisono i Peshmerga sulle prime linee e al quartier generale di Erbil. Abbiamo trascorso la giornata di ieri assieme alle loro unità nella cittadina di I peshmerga curdi, grazie all'aiuto dei raid Usa, sono riusciti a riconquist­are, ieri, gran parte della diga di Mosul, strategica per la regione, caduta nelle mani dell'Isis all'inizio del mese Makhmur, solo 60 chilometri a sud di Erbil e un centinaio a est della diga di Mosul. L’intera area era stata occupata in poche ore dalle brigate islamiche il 7 agosto. E ripresa dai curdi tre giorni dopo solo grazie agli attacchi dei jet Usa. «I nostri 28 mila abitanti sono fuggiti a nord e a loro si sono aggiunti gli 11 mila che vivono qui vicino nel campo dei profughi curdi arrivati dalla Turchia. Ma solo 2 mila sono tornati. Qui siamo quasi unicamente soldati», dice il sindaco, il 38enne Ibrahim Hallah. La linea del fronte è un paio di chilometri più a sud della municipali­tà: postazioni isolate di mitragliat­rici, una trincea appena accennata, qualche riparo di terra scavato dai bulldozer. In lontananza si stagliano tra le colline bruciate dal sole le nuvole di sabbia e polvere sollevate dai gipponi delle milizie nemiche. «Il calibro delle nostre mitragliat­rici è al massimo 12 millimetri, il loro è di 18 e 22 e mezzo. Inoltre hanno aggiunto corazze di ferro agli Humvee americani che in giugno hanno catturato all’esercito iracheno in rotta. Le nostre armi anticarro sono del tutto impotenti», lamenta il 28enne capitano Lukman Ali Ismahil. Poche ora fa i jet americani hanno bombardato proprio di fronte al suo settore, a circa 800 metri dal parapetto di sacchetti di sabbia da dove guardiamo verso sud. «Hanno distrutto tre autoblindo che stavano per attaccarci», racconta il capitano. Alle sue spalle impera il silenzio. Makhmur è un dedalo di strade deserte.

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