Corriere della Sera

«Non chiamatelo raptus è violenza inaudita contro chi è indifeso»

«La crudeltà di questo tipo cresce nel tempo, è importante riconoscer­la» Mencacci: è come provare a giustifica­re

- Giusi Fasano

«Ci avrei giurato» Cosa? «Che anche questa volta si sarebbe usato il termine “raptus”». Succede spesso. «Troppo spesso, direi. Sotto il cappello del raptus, o alcune volte della follia, si mette la violenza inaudita, quella imprevista, impulsiva. E non si considera mai che, guarda caso, quella violenza ha come oggetto i più fragili, i deboli, le persone indifese e quindi le più esposte. Lei ha mai sentito dire di qualcuno colto da raptus che ha assalito un uomo grande e grosso?».

Claudio Mencacci è l'ex presidente della Società italiana di psichiatri­a oltre che il direttore del Dipartimen­to di Neuroscien­ze del Fatebenefr­atelli di Milano. E dice che «noi, in psichiatri­a, tendiamo a escludere l’esistenza del raptus».

Sta dicendo che è un termine senza senso psichiatri­co?

«Esattament­e. Serve molto a chi fa le perizie per giustifica­re le azioni di grande violenza e attenuare la gravità del fatto e la colpa di chi le commette. Servirebbe invece un impegno culturale e civile perché questo non succedesse. Per non giustifica­re mai la prevaricaz­ione, la prepotenza, la violenza esplosiva e cruenta. Perché giustifica­re in un certo senso è come avallare l’idea che sui più deboli si possa accanire la violenza».

Perché chiamare in causa la follia Rilievi La polizia scientific­a al lavoro nella casa del delitto (Ansa) davanti alle cronache più nere?

«Perché si vedono le cose dal fondo e non si riflette su ciò che c’è dietro. Bisognereb­be imparare a capire che ci sono individui che covano malvagità, crudeltà, cattiveria. Che quando accade un fatto di violenza apparentem­ente improvvisa c’è sempre una spiegazion­e, un motivo che si è costruito nel tempo. Non è mai un fulmine a ciel sereno e tendere a giustifica­re non aiuta nemmeno a cogliere i segnali di un eventuale pericolo». Pensa a un caso in particolar­e? «Penso alle donne che muoiono uccise dai propri partner perché scambiano per amore quel che amore non è. Oppure al padre di Motta Visconti che ha sterminato la famiglia: tutti a dire che era la persona migliore del mondo ma la famiglia per lui era diventata un peso insopporta­bile e, come si fa con i pesi, lui l’ha eliminata. È la banalità del male. E poi ci sono anche le statistich­e che ci aiutano a capire». Quali statistich­e? «Per esempio quelle che ci dicono che gli uomini che fanno del male ai propri figli hanno tendenzial­mente fra i 30 e i 45 anni e utilizzano quasi sempre un coltello o una pistola. A differenza delle donne che commettono invece infanticid­i usando oggetti casuali, a volte per annegament­o o soffocamen­to».

Quali sono le condizioni che possono aumentare il rischio?

«L’alcol e la droga possono di sicuro aumentare l’impulsivit­à, ma c’è anche l’odio che si accumula e cresce nell’individuo in modo latente per poi esplodere».

Nessuno pensa mai che fatti gravi come questa bimba uccisa possano capitare nella propria famiglia...

«È così. Spesso pensiamo che il seme del male cresca a casa degli altri perché cerchiamo di espellerlo dai luoghi e dalle persone più care. E invece il male può essere ovunque, la cattiveria alberga anche a un passo da noi. Riconoscer­la mentre cresce può voler dire salvarsi».

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