Nei rottami una promessa di futuro
parola virale degli anni Dieci è «rottamare». Da alcuni politici particolarmente sensibili alla propria sopravvivenza, è stata definita addirittura «fascista», ma ha invaso naturalmente l’immaginario contemporaneo. Deriva dalla pratica di riciclare rottami, vecchi pezzi per lo più metallici di prodotti industriali, spesso legata a incentivi per nuovi acquisti; infine, ha fatto irruzione nel mondo della politica, con Matteo Renzi, il «rottamatore». La parola è usata da molte tribù linguistiche, persino da politici di segno opposto al Pd, e anche da intellettuali che sono stati rottamati, come Gianni Vattimo, che rivendica la primogenitura linguistica del termine — e che in realtà si è rottamato da solo, offrendo invano la sua candidatura a Beppe Grillo. Il verbo «rottamare» piace a pubblicitari e negozianti che in tempo di crisi lo utilizzano per favorire la consegna di vecchi prodotti e l’acquisto di nuovi modelli. La parola è così entrata nell’uso comune che fa effetto, oggi, aprire un dizionario e non trovarla. Ma può essere utile. Prendiamo il Devoto Oli del 1971, pubblicato da Le Monnier di Firenze. A pagina 2.021 si trova «rottame», cioè «residuo di materiale deteriorato o inservibile (di solito al plurale)»; in senso figurato indica una «persona stremata e logorata nel fisico o nel morale». Il verbo «rottamare» non c’è, e «rottame» si trova tra «rotta» e «rotto», poi «rottura». A ricordarci: la rottamazione