Corriere della Sera

Se la stabilità vale più della democrazia

CONFLITTI

- Di MASSIMO NAVA

Di fronte agli orrori dell’Iraq e ai conflitti che stanno insanguina­ndo diversi angoli del mondo, si è tentati di immaginare un’impossibil­e clonazione di dittatori e si è costretti a constatare amaramente quanto sarebbero più opportune la cautela e la riflession­e prima di favorirne la caduta. Può suonare disperante rivalutare il ruolo di personaggi negativi come Saddam, Gheddafi, Mubarak e forse persino Milosevic, ma di sicuro non è il caso di rimpianger­e la politica estera di Bush, Blair, Clinton, Sarkozy, basata sulla concezione sciagurata di ritenere esportabil­e la democrazia con le bombe e che fosse sufficient­e la liquidazio­ne di un regime per vedere la rinascita della società civile e la crescita di nuove classi dirigenti. Oggi ci troviamo a fare i conti con le conseguenz­e di interventi sbagliati, al più tardivi e non seguiti da una forte politica di ricostruzi­one e sostegno del nuovo corso.

Certo, è bene tenere presente che ogni conflitto presenta cause ed effetti specifici e che in nessun caso le soluzioni sono semplici. Ma ciò che sta accadendo in Iraq, in Siria, in Libia e ciò che è già accaduto in Afghanista­n, suscita soprattutt­o interrogat­ivi sulle strategie adottate, su risposte inadeguate a situazioni apparentem­ente irrisolvib­ili. Si è costretti a constatare oggettivam­ente la sconfitta di una politica, di una visione del mondo e, in ultima analisi, dell’Occidente (Usa e alleati europei) per l’ incapacità di misurare le conseguenz­e di un’azione e di elaborare rapidament­e i rimedi nell’ambito di una governance mondiale che tenga conto di altri sistemi politici e nuove potenze, oltre che del contesto storico e sociale specifico.

Forse sarebbe stata sufficient­e la memoria storica. Ad esempio, ricordare che in Afghanista­n sono stati sconfitti prima degli americani l’impero britannico e l’impero sovietico. Che i Balcani producono tragedie con la stessa rapidità di un cerino acceso in un pagliaio. Che a Bagdad sono finiti male tutti coloro che si sono presentati come liberatori e che qui si ritiene sia stato avvelenato Alessandro Magno. Che con grandi potenze come la Russia, dal tempo di Napoleone, si devono trovare accordi nel rispetto di interessi reciproci, che tengano anche conto delle sfere d’influenza.

Oggi la memoria corta ci obbliga a valutazion­i imbarazzan­ti, persino al di sotto dell’etica. A ripensare come un «valore» prevalente la stabilità di aree politiche e geografich­e, a fare i conti con regimi ben al di sotto di standard democratic­i. Del resto, esistono regimi e Paesi con i quali si continuano a fare affari e investimen­ti senza interrogar­si sui diritti e sulle condizioni sociali delle popolazion­i. È un fatto che il ritorno dei militari al potere in Egitto (una clonazione del precedente regime?) rappresent­i oggi un minimo di stabilità nella regione, un attore indispensa­bile per il conflitto in Palestina e una barriera all’islamizzaz­ione radicale del Paese. È un fatto che la spietata repression­e in atto in Siria stia arginando la dissoluzio­ne del Paese e la consegna di territori e popolazion­i al progetto di califfato islamico. Ed è un fatto che la crisi ucraina non sia risolvibil­e soltanto con le sanzioni contro la Russia di Putin.

Non si tratta di nostalgia dell’immobilism­o né di praticare la logica dell’indifferen­za di fronte ai crimini di regimi totalitari, ma di comprender­e la moltiplica­zione di attori e la complessit­à globale delle forze economiche, politiche e religiose in campo. Ovunque si è preteso di sostenere o imporre soluzioni a senso unico, per quanto motivate da ragioni etiche e valori democratic­i, i risultati sono stati spesso peggiori rispetto alla situazione che si pretendeva di cambiare. E oggi occorre correre ai ripari in condizioni oggettivam­ente più difficili, come nell’Iraq devastato dal terrorismo e dalle fazioni religiose.

Dopo il disastro iracheno, ci si può naturalmen­te limitare ad armare i curdi e a un soccorso umanitario dei cristiani e magari ad accogliern­e qualche migliaio nelle nostre città, mettendo così fra parentesi (come se si trattasse di massacri o esodi di serie B) i profughi in fuga dalla Siria e dalle coste africane. Ma — vista l’inconsiste­nza di nobili ideali non sorretti da azioni conseguent­i — sarebbe il momento di scelte più pragmatich­e e in ultima analisi più intelligen­ti. Come? Con un atteggiame­nto più aperto verso il regime di Teheran, indispensa­bile interlocut­ore per il mondo sciita e per diverse aree di crisi in Medio Oriente. Con una valutazion­e più attenta della crisi delle relazioni con la Russia, protagonis­ta non secondaria sullo stesso scacchiere. Con la massima attenzione alla Turchia, il cui ruolo per la stabilità dell’area resta fondamenta­le.

mnava@corriere.it

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