Riina e il giallo delle carte di Dalla Chiesa: «Gliele rubarono dalla cassaforte»
ROMA — « Questo Dalla Chiesa ci sono andati a trovarlo e gli hanno aperto la cassaforte e gli hanno tolto la chiave. I documenti dalla cassaforte e glieli hanno fottuti». Nella storia della mafia raccontata al compagno di ora d’aria, Totò Riina, non dimentica il capitolo del mistero delle carte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: assassinato a colpi di kalashnikov esattamente 32 anni fa, il 3 settembre 1982 a Palermo. L’enigma della cassaforte di villa Pajno, sua residenza, ripulita subito dopo l’omicidio suo e di sua moglie Emanuela Setti Carraro. E della sua borsa, piena di documenti, sparita e riapparsa dopo 31 anni. Vuota.
All’attentissimo detenuto Alberto Lorusso, Riina lo racconta divertito: «Minchia il figlio faceva... il folle. Perché dice c’erano cose scritte. E loro gliel’hanno fatta. Minchia. Gliel’hanno aperta, gliel’hanno aperta la cassaforte... tutte cose gli hanno preso».
In attesa che i magistrati palermitani chiariscano se quelle chiacchiere da «ora d’aria» siano verità, depistaggi o messaggi, Nando Dalla Chiesa, il «figlio che faceva il folle» citato da Riina, commenta con semplicità: «È un po’ quello che abbiamo pensato anche noi. Ce lo dicevano
Il figlio del generale «È un po’ quello che abbiamo pensato anche noi dopo la morte di mio padre»
le circostanze. Il personale di sorveglianza terrorizzato. La gente che era entrata in casa con la scusa di prendere le lenzuola per coprire i cadaveri. Mio zio che non venne fatto entrare in casa. I cassetti vuoti, in cui dopo una settimana ricomparve misteriosamente una chiave con su scritto cassaforte. Che, quando andammo ad aprirla, risultò vuota».
E rivela: «Giovanni Falcone, una volta mi chiese se avessi capito perché era stata uccisa anche Emanuela. Io risposi che avevo sempre pensato fosse stata assassinata perché in quel momento era vicina a mio padre. Ma lui mi disse: “No, fu uccisa perché in casa non doveva esserci nessuno”».
Ma perché Totò Riina, passeggiando per il cortile del carcere milanese di Opera torna ad aprire quella pagina oscura? E davvero lo fa senza pensare di poter essere intercettato? Una cosa colpisce. L’inciso che Riina fa, paragonando il mistero della cassaforte svuotata del prefetto antimafia, al proprio covo ripulito dopo il suo arresto. Appena un accenno per marcare la differenza e dire che lui di documenti non ne aveva proprio. «Li tenevo in testa», assicura Riina al compagno di passeggio che aveva chiesto: «Ma pure a Dalla Chiesa gli hanno portato i documenti dalla cassaforte?». Poi l’ironia sui documenti «fottuti» al generale.
Messaggi dal carcere inviati a chi rimase sempre nell’ombra? Nando Dalla Chiesa pensa di no: «Io non credo. Un messaggio indirizzato a chi? Ormai sono tutti morti: da Spadolini ad Andreotti, a Cossiga». Allora perché parlarne? «Evidentemente — spiega Dalla Chiesa — lui sa ciò che a noi è stato impedito di sapere. Al maxiprocesso, venne chiesto al testimone che quel giorno era di guardia chi fosse entrato, subito dopo l’omicidio nella villa: girava una voce mai appurata che fosse stato Contrada. Ma subito dopo la domanda successe un parapiglia: un mafioso presente in aula cominciò a fingersi pazzo. L’udienza venne sospesa. Poi ci fu la pausa estiva. E alla ripresa non fu più possibile saperlo».
Intanto sono state rese note le motivazioni del tribunale di sorveglianza di Bologna che ha rigettato le istanze di Riina per il differimento pena per motivi di salute e per la detenzione domiciliare. Il tribunale ha ritenuto che non c’è alcun « vulnus alla tutela del diritto alla salute del condannato».