E Ferrario racconta l’industrializzazione tra progresso e illusione
Una scena del film di Ferrario negli anni del boom economico
Ancora poco studiato in tutte le sue componenti, il «cinema industriale», cioè il cinema prodotto in prima persona dalle industrie per raccontare le proprie attività, ha rappresentato per decenni una parte importante della storia del documentario italiano e una palestra non indifferente per molti autori ( tra cui Olmi, Antonioni e Vancini), talmente rilevante dal punto di vista quantitativo da giustificare la creazione a Ivrea dell’Archivio Nazionale del Cinema Industriale. È partendo dal materiale là conservato che Davide Ferrario ha costruito La zuppa del demonio ( fuori concorso al Lido), utilizzando una locuzione creata da Buzzati per descrivere la produzione dell’acciaio negli altiforni di Taranto. E proprio le immagini della nascita di quell’acciaieria (prima Italsider e poi Ilva), con le ruspe che sradicano gli ulivi mentre il commento spiega come la fabbrica sia progresso e ricchezza mentre la terra passato e povertà, proprio quelle riprese ci mettono di fronte al tema che attraversa tutto il film: che conti fare oggi con le illusioni di ieri? Il regista dichiara subito le sue intenzioni: rispettare immagini e testi di allora e ricostruire attraverso i materiali d’archivio la storia d’Italia che, dagli anni Dieci fino alla crisi petrolifera del '73, vedeva nel modello-fabbrica l’unico futuro del Paese. E lo fa con un lavoro eccellente, che scava nella storia e ricostruisce le tante facce dell’industrializzazione, ma quelle immagini finiscono inevitabilmente per avere un «fuori campo», per restituire alla memoria di chi guarda altri ricordi e altre scene. E invece qui il film finisce per «limitarsi», per «chiudere gli occhi». Mentre invece ti vien da pensare che immagini girate per esaltare l’industria contengono anche i germi di una possibile autocritica. Che forse Ferrario avrebbe potuto illuminare meglio.