Corriere della Sera

IL TRAMONTO DELLA FRETTA

- di ANTONIO POLITO

Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversion­e del giovane leader «rivoluzion­ario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazio­ne di hashtag su #lasvoltabu­ona.

Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttur­a il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendo­si più tempo per realizzarl­e, e insieme garantisce lunga vita ai parlamenta­ri chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativ­a di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato. Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.

Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventereb­bero millecinqu­ecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizio­ne tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica « normalizzi » un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendog­li senso e consenso.

In due campi in particolar­e le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenz­iale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziari­a. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.

Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata jobs act, non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazio­ne «entro la fine dell’anno» e l’applicazio­ne entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazio­ne retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.

Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibili­tà mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.

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