L’OSCENITÀ DELLA TORTURA
La tortura è sempre stata praticata. Ma negli ultimi secoli, in segreto. La tortura è l’officina del sadismo e il sadismo chiede silenzio e concentrazione, chiede clandestinità e buio. Per lo meno da quando è stata sancita eticamente la condanna della tortura e da quando la psicanalisi ha scavato nell’inconscio umano raccontando le nefandezze di una pratica che, sotto sfondi ideologici e religiosi, nasconde il piacere sensuale di pascersi del dolore altrui.
Messa in scena L’umiliazione del nemico fa parte di una calcolata messa in scena
Ma pure, ormai anche le religioni hanno accettato l’idea che la tortura è inutile oltreché oltraggiosa. Pare chiaro a tutti che Dio non può stare accanto alla mano che frusta, scortica, strangola, ferisce, colpisce e lapida. Prima di Cristo e prima dell’Illuminismo, ovvero del riconoscimento dei diritti dell’Uomo, Dio permetteva, eccome, la tortura, forse anche lo esigeva. Per questo era considerato normale che a un ladro venisse tagliata una mano in piazza, e che un assassino venisse squartato in pubblico, che un eretico venisse bruciato vivo davanti a una folla di curiosi. Ma dopo Cristo, dopo San Francesco, dopo Voltaire e Beccaria, la tortura è passata in clandestinità. Le polizie più feroci hanno continuato a praticarla, in nome della sicurezza nazionale, in nome dell’antiterrorismo, in nome di qualche ideologia o religione intransigente. Ma chi pratica la tortura non è più innocente e quindi si sente in colpa. Dopo Freud è difficile credere nella purezza della tortura. Che affonda le sue radici nel piacere sessuale. Il piacere proibito dei deboli e dei frustrati che trovano nell’umiliazione del dominato l’esaltazione del proprio dominio. Gli animali non praticano la tortura. Dobbiamo dedurne che non si tratta di un istinto naturale. Gli animali uccidono per mangiare o per difendersi, ma la tortura, nel senso organizzato e scientifico che noi conosciamo, è chiaramente un prodotto culturale. Il prodotto di una sofisticazione psicologica. La tortura si serve di strumenti sempre più delicati e complessi e oltre allo scopo dichiarato di punire il colpevole, o di costringerlo a confessare, ha la funzione di riempire un vuoto di potere. Il potere terribile, ma esaltante e glorioso, di infliggere strazio e dolore. La morte con le sue vesti nere e la falce in mano è lì presente, e acconsente al martirio di un corpo umano. E la morte, si sa, non guarda in faccia nessuno. Quando colpisce, colpisce soprattutto per fare sapere che c’è, che è la più forte e la più inesorabile. Non esiste ricchezza o potere umano che possa vincerla. Le sue vesti nere, il suo coltello affilato, sono lì a fare giustizia della vita. «La terribile colpa di essere vivi», come dice un personaggio di Marlowe. Ora questi guerrieri dell’Isis hanno avuto l’idea perversa — probabilmente spinti da un istinto antistorico di grande forza — di tornare alla rappresentazione pubblica della tortura. Perché di supplizio si tratta, e non solo di morte. L’umiliazione del nemico, il ridurlo a un simbolo, togliendogli ogni dignità e identità umana, fa parte di una calcolata messa in scena, di uno spettacolo che vuole essere esemplare ma che, una volta spogliata della sua innocenza storica, diventa solo oscena. Certamente però tocca il lato morboso del voyerismo telematico. C’è molta astuzia strategica, nel combinare il massimo dell’arcaismo col massimo del modernismo. La miscela è micidiale e colpisce l’immaginazione. «Io sono tornato», dice il boia tutto coperto di nero come la morte, e ci si aspetta che appena si toglierà quel cappuccio, apparirà un teschio senza occhi, dai denti che ghignano, come nei quadri del Seicento. Che al posto della falce ci sia un coltello, non cambia le cose. È la lama che taglia, che recide, che decapita. E noi siamo tutti un poco accoltellati da questa oscena rappresentazione dell’odio che preme sui sensi.