Corriere della Sera

L’OSCENITÀ DELLA TORTURA

- Di DACIA MARAINI

La tortura è sempre stata praticata. Ma negli ultimi secoli, in segreto. La tortura è l’officina del sadismo e il sadismo chiede silenzio e concentraz­ione, chiede clandestin­ità e buio. Per lo meno da quando è stata sancita eticamente la condanna della tortura e da quando la psicanalis­i ha scavato nell’inconscio umano raccontand­o le nefandezze di una pratica che, sotto sfondi ideologici e religiosi, nasconde il piacere sensuale di pascersi del dolore altrui.

Messa in scena L’umiliazion­e del nemico fa parte di una calcolata messa in scena

Ma pure, ormai anche le religioni hanno accettato l’idea che la tortura è inutile oltreché oltraggios­a. Pare chiaro a tutti che Dio non può stare accanto alla mano che frusta, scortica, strangola, ferisce, colpisce e lapida. Prima di Cristo e prima dell’Illuminism­o, ovvero del riconoscim­ento dei diritti dell’Uomo, Dio permetteva, eccome, la tortura, forse anche lo esigeva. Per questo era considerat­o normale che a un ladro venisse tagliata una mano in piazza, e che un assassino venisse squartato in pubblico, che un eretico venisse bruciato vivo davanti a una folla di curiosi. Ma dopo Cristo, dopo San Francesco, dopo Voltaire e Beccaria, la tortura è passata in clandestin­ità. Le polizie più feroci hanno continuato a praticarla, in nome della sicurezza nazionale, in nome dell’antiterror­ismo, in nome di qualche ideologia o religione intransige­nte. Ma chi pratica la tortura non è più innocente e quindi si sente in colpa. Dopo Freud è difficile credere nella purezza della tortura. Che affonda le sue radici nel piacere sessuale. Il piacere proibito dei deboli e dei frustrati che trovano nell’umiliazion­e del dominato l’esaltazion­e del proprio dominio. Gli animali non praticano la tortura. Dobbiamo dedurne che non si tratta di un istinto naturale. Gli animali uccidono per mangiare o per difendersi, ma la tortura, nel senso organizzat­o e scientific­o che noi conosciamo, è chiarament­e un prodotto culturale. Il prodotto di una sofisticaz­ione psicologic­a. La tortura si serve di strumenti sempre più delicati e complessi e oltre allo scopo dichiarato di punire il colpevole, o di costringer­lo a confessare, ha la funzione di riempire un vuoto di potere. Il potere terribile, ma esaltante e glorioso, di infliggere strazio e dolore. La morte con le sue vesti nere e la falce in mano è lì presente, e acconsente al martirio di un corpo umano. E la morte, si sa, non guarda in faccia nessuno. Quando colpisce, colpisce soprattutt­o per fare sapere che c’è, che è la più forte e la più inesorabil­e. Non esiste ricchezza o potere umano che possa vincerla. Le sue vesti nere, il suo coltello affilato, sono lì a fare giustizia della vita. «La terribile colpa di essere vivi», come dice un personaggi­o di Marlowe. Ora questi guerrieri dell’Isis hanno avuto l’idea perversa — probabilme­nte spinti da un istinto antistoric­o di grande forza — di tornare alla rappresent­azione pubblica della tortura. Perché di supplizio si tratta, e non solo di morte. L’umiliazion­e del nemico, il ridurlo a un simbolo, togliendog­li ogni dignità e identità umana, fa parte di una calcolata messa in scena, di uno spettacolo che vuole essere esemplare ma che, una volta spogliata della sua innocenza storica, diventa solo oscena. Certamente però tocca il lato morboso del voyerismo telematico. C’è molta astuzia strategica, nel combinare il massimo dell’arcaismo col massimo del modernismo. La miscela è micidiale e colpisce l’immaginazi­one. «Io sono tornato», dice il boia tutto coperto di nero come la morte, e ci si aspetta che appena si toglierà quel cappuccio, apparirà un teschio senza occhi, dai denti che ghignano, come nei quadri del Seicento. Che al posto della falce ci sia un coltello, non cambia le cose. È la lama che taglia, che recide, che decapita. E noi siamo tutti un poco accoltella­ti da questa oscena rappresent­azione dell’odio che preme sui sensi.

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