Corriere della Sera

«Ho paura ma c’è bisogno di me» Le volontarie italiane in Iraq e Siria Federica, Micol, Marta: cooperanti nelle terre dell’Isis malgrado i rischi

- Zone calde Elisabetta Andreis

Federica Gino, 29 anni, torinese, insieme a un gruppo di profughi iracheni. Da pochi giorni lavora per Intersos vicino a Erbil, nel Kurdistan iracheno

L’ultima a partire, due giorni fa, è stata Micol Alberizzi, 24 anni: è atterrata col buio ad Erbil, nel nord dell’Iraq, per supportare come operatrice umanitaria di Terre des Hommes i profughi iracheni in fuga dall’Isis.

Cosciente dei rischi, prudente, a dispetto della giovane età, preparata. Ma soprattutt­o, tra brutali decapitazi­oni, sequestri come quello delle volontarie italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo in Siria, e violenze che scuotono l’opinione pubblica, molto coraggiosa. «È importante accantonar­e la paura e partire per dare supporto alle organizzaz­ioni proprio adesso che l’emergenza è drammatica e molti volontari, visti i fatti di cronaca, spaventati si tirano indietro», dice con tono fermo.

Non è eroismo, il suo, ma qualcosa di diverso. E non è la sola: anche se sempre più alla spicciolat­a gli operatori delle onlus italiane, spesso giovani motivati, atterrano anche in questi giorni in Medio Oriente, sfiorando gioco forza le zone più calde e rischiose. Passione, senz’altro. Ma anche un senso del dovere che nasce dallo studio in facoltà come «Scienze della cooperazio­ne per lo sviluppo e la pace», e dalla consapevol­ezza che in quei Paesi ogni conforto — pratico, tecnico e psicologic­o — non può che arrivare da fuori, da noi, dai Paesi «vicini».

«Chi vede con i propri occhi quanto bisogno c’è di aiuto non riesce più a stare tranquillo a casa, deve muoversi», testimonia Marta Galbiati via skype con un segnale a singhiozzo che restituisc­e l’idea dell’estrema precarietà del contesto. Trentun anni, tornata in Italia dopo quasi un anno a Kabul, è subito ripartita con Emergency per Khanaquin, nella parte del Kurdistan vicina al confine iraniano. E in un attimo si è attivata come logista in una clinica dove ogni giorno accorrono «almeno cinquanta» profughi iracheni da visitare. Si trova a 20 chilometri da Jalawla, città controllat­a dall’Isis, e intorno combattono i peshmerga (le forze di sicurezza curde): «La paura ti soffia sul collo — racconta —. Ci dicono di questi uomini che girano con Suv ed enormi pick up, armati fino ai denti, poco lontano da qui». Ma come si vince il terrore? «L’unica difesa è appoggiars­i agli altri, e usare mille precauzion­i. Ogni volta, prima di uscire di casa, noi ci informiamo su ciò che dice la gente perché la situazione potrebbe essere cambiata in modo improvviso. E poi bisogna stare sempre in gruppo, non andare nei luoghi affollati». La sicurezza, qui, si guadagna sul campo.

Non è un caso, infine, che in questo pezzo siano tutte donne: se — come pare — i reporter lì, in questo momento, sono per lo più uomini, è certo per contro che in forza alle onlus è l’altra metà del cielo ad essere più attiva. Eppure essere donna, con le violenze e le sopraffazi­oni di cui le operatrici purtroppo raccolgono testimonia­nze dirette, «fa sentire ancora più vulnerabil­i». Pesa la poca libertà di movimento, spiace dare pensieri a chi si lascia a casa («Cerco di chiamare il più spesso possibile

L’annuncio di Zawahiri

In Iraq

Marta Galbiati (a destra), 31 anni, è partita con Emergency per Khanaquin, nel Kurdistan iracheno, vicino al confine iraniano i miei, c’è una sorta di egoismo nell’andare, me ne rendo conto, ma loro sono anche orgogliosi», si fa forza Deborah Da Boit, 33 anni, che ha appena lasciato il «piccolo paradiso» di Macugnaga per decollare verso Damasco in Siria e distribuir­e kit igienicosa­nitari e latte in polvere a donne e bambini ai paesi lì intorno.

La motivazion­e è più forte di tutto, pare di capire. «Ho studiato i protocolli di sicurezza, cercato di capire ogni angolo di questo territorio, so l’arabo e vorrei imparare il curdo, posso offrire competenze e umanità — convince Federica Gino, torinese di 29 anni arrivata in Kurdistan con Intersos —. Da quando sono arrivata, dieci giorni fa, soltanto nel nostro quartiere si sono ammassate 20.000 persone in più. Le milizie estremiste dell’Isis han messo a ferro e fuoco le province settentrio­nali del Paese, il numero di sfollati sfiora il milione e mezzo, e 400.000 persone hanno trovato rifugio precario in scuole, parchi, chiese. La paura, di fronte a tutto questo, rimane secondaria». L’importante è «sapere individuar­e il limite entro cui ce la si può fare da soli e quando invece è necessario scappare o chiedere aiuto», dice ancora Marta. E Federica: «Ci sono zone precise in cui si lavora bene, e aree pericolose dove è sconsiglia­to andare. Magari sono a pochi chilometri di distanza, ma c’è una bella differenza». Loro lo sanno bene.

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