Corriere della Sera

Impariamo la lingua colloquial­e

Anziché imporre forme rigide o arcaiche, meglio insegnare a scrivere con semplicità Antonelli: «La usavano i poeti». Nori: «Purché sia corretta»

- Dal nostro inviato CRISTINA TAGLIETTI

MANTOVA — L’italiano è un protagonis­ta ormai immancabil­e di festival e fiere letterarie, un convitato molto richiesto che fa spesso il tutto esaurito. Se ne parla molto anche quest’anno al Festivalet­teratura con una serie di incontri che vanno dalla grammatica spiegata ai bambini, all’ortografia, all’uso delle metafore. L’approccio prevalente, però, sembra essere quello che va a cercare il bello del brutto italiano. Scrivere, bene, in una lingua che sia di uso comune, quotidiano, che sia funzionale ed espressiva. Un italiano desacraliz­zato, a più registri.

Un approccio che emerge bene da due incontri molto diversi: uno che ha visto protagonis­ta, ieri, lo scrittore Paolo Nori; l’altro, oggi con il linguista Giuseppe Antonelli. Nori è l’autore di Scuola elementare di scrittura emiliana per non frequentan­ti, illustrato da Yocci ed edito da Corraini. «Il libro — spiega Nori — parte proprio da questi corsi che dal 2007 con Daniele Benati e Ugo Cornia facevamo prima a Reggio Emilia e ora a Bologna. Una scuola che insegna in un certo senso a scrivere male, cioè a misurarsi con una lingua concreta, quotidiana che, invece, quando scriviamo, tendiamo a correggere, a nobilitare, usando forme auliche, pompose. L’esempio che faccio è quello di Benati che si era messo a tradurre un racconto di Beckett e aveva lasciato perdere perché gli sembrava che Beckett andasse a cento all’ora, mentre lui no. L’incipit, in inglese, è “I was feeling awful”. Lui provò col dialetto emiliano: “A stev mel”, stavo male. Un traduttore precedente aveva fatto: “Avevo una tarantola di inquietudi­ni in petto”».

Nori riconosce che, anche lui, con i primi libri, aspirava a una lingua alta («volevo che si vedesse che sapevo delle cose, che avevo studiato») una lingua che, però, risultava incongrua. Ora, quello che cerca di insegnare è che è possibile lavorare anche sulle inesattezz­e, sulle consecutio non ortodosse, sugli anacoluti e sulle infrazioni alla norma perché « l’italiano- italiano, quello dove si seguono tutte le regole dettate non dall’uso ma dalle grammatich­e

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lo parleranno in Italia due o tremila persone, mentre gli altri parlano in una lingua che risente del posto in cui viene parlata, dei dialetti, dei sostrati particolar­i di quel posto lì. La distanza tra lingua scritta e lingua parlata è ancora molto forte». Poi naturalmen­te non è così per tutti. «Manganelli, per esempio, scriveva in un italiano bellissimo, alto, ma lui era quello lì, sempliceme­nte rimetteva fuori le cose che l’avevano nutrito».

Antonelli, da linguista, oggi cercherà di raccontare questa separazion­e tra la lingua viva, parlata, e quella scritta cristalliz­zata nelle regole della grammatica attraverso l’uso dei pronomi, per dimostrare che «non è aggrappand­oci a un’era glaciale in cui l’italiano è stato codificato che possiamo salvarlo». Quando c’era egli è infatti il titolo del suo incontro, che parte proprio dall’uso del pronome soggetto prescritto

Il linguista «La scuola promuove una lealtà linguistic­a che comporta un conservato­rismo non spendibile nella realtà»

dalla grammatica, che nessuno usa parlando. «La scuola e una certa mentalità puristica molto diffusa promuovono quella che Luca Serianni chiama lealtà linguistic­a che, per un certo verso, è anche positiva, ma non se comporta un conservato­rismo, se propone un modello linguistic­o non spendibile nella realtà e quindi rifiuta anche quell’italiano che viene dall’universo telematico, dalle canzoni, dai fumetti. Calvino nel famoso intervento del 1965 spiega bene che cos’è l’antilingua, quella per cui si dice “ho effettuato” invece di “ho fatto”. Con il risultato che si può trovare un cartello in un bar, in cui c’è scritto: “Non si effettuano panini”».

La lotta è a quello che Antonelli chiama il «perbenismo linguistic­o», dove si corregge «sono andato» con «mi sono recato». Eppure anche i grandi scrittori usavano un registro colloquial­e, per esempio nelle lettere, e infatti

L’autore «È preferibil­e lavorare sulle inesattezz­e, sulle consecutio, sugli anacoluti che inseguire la perfezione di tutte le regole»

Disegni

L’immagine a fianco è un’illustrazi­one di Yoshiko Noda alias «Yocci» tratta dal libro «Scuola elementare di scrittura emiliana per non frequentan­ti» (Corraini, pp. 192, 18) di Paolo Nori. La mostra di Yocci «Libri disegnati» è a Mantova fino al 22 novembre, alla Galleria Corraini Antonelli sarà in libreria tra poco con una Libellula Mondadori dal titolo Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. «Basta leggere gli epistolari di Carducci, Monti, ma anche di Canova e Crispi per esempio, per capire che avevano la capacità di usare lingue diverse, anche confidenzi­ali. Bisogna far passare l’idea che conoscere la propria lingua non significa parlare come un libro stampato, ma possedere una varietà di registri linguistic­i da usare in varie situazioni. L’e-taliano va bene se è uno dei tanti, diventa preoccupan­te, se resta soltanto quello».

Antonelli pensa che non sarà «un attimino» a rovinare la lingua italiana («a parte che Manzoni scrive: "si fermò un momentino sulla riva"») e neppure gli anglismi («in tutti i dizionari non sono più del due per cento e d’altronde nel Settecento la quantità di francesism­i era altissima, poi sono caduti da soli»). La morte dei dialetti, profetizza­ta anche da Pasolini, poi non è avvenuta: «Nel momento in cui tutti hanno cominciato a parlare l’italiano, più o meno bene, hanno smesso di vergognars­i del dialetto che è morto forse nella sua forma arcaica, ma la dialettali­tà si è estesa».

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