Corriere della Sera

L’ultimo Pasolini Abel Ferrara, coraggio e cadute di stile Convincent­e prova mimetica di Dafoe

- Di PAOLO MEREGHETTI

Intenso Willem Dafoe in un intenso momento del film in cui interpreta Pier Paolo Pasolini. Ferrara ha spiegato: «Il punto del film è cercare di parlare della sua vita e del suo lavoro, delle sue passioni e della sua compassion­e»

Una cosa certamente non manca a Ferrara: il coraggio! Dopo Strauss Khan ( presentato tra mille polemiche a Cannes, ma fuori festival), arriva Pasolini, questa volta a Venezia e in concorso, l’uno e l’altro «sostenuti» da una ricostruzi­one cronachist­ica che fa acqua nel primo ma funziona nel secondo (anche se in sala il pubblico si è diviso). Il film veneziano, intitolato seccamente Pasolini, ricostruis­ce (su sceneggiat­ura di Maurizio Braucci) le ultime 36 ore di vita dello «scrittore» (come aveva scritto sul passaporto e come si definisce nel film), sforzando di attenersi alla pura cronaca ma offrendo alle due opere cui stava lavorando dopo la fine del montaggio di Salò (che sarebbe uscito postumo) la possibilit­à di prendere vita e forma sullo schermo: prima l’incompiuto romanzo Petrolio di cui «illustra» gli appunti 55 (il pratone della Casilina) e quelli 97 e 98 (la festa e il racconto dell’aereo che cade in Sudan) e poi Porno-Teo-Kolossal (la visita a Sodoma con la festa della fertilità e poi la scalinata del finale).

Affidato a un convincent­e e mimetico Willem Dafoe, Pasolini ne esce come un intellettu­ale che non vuole abdicare all’impegno (anche se fuori dai percorsi tradiziona­li) e che soprattutt­o continua a misurarsi con la forma da dare alle sue tante idee e suggestion­i. Il film lo dice esplicitam­ente attraverso una lettera ad Alberto Moravia (che sentiamo all’inizio) o l’intervista a Furio Colombo (che ricostruis­ce con Francesco Siciliano nella parte del giornalist­a) e lo mostra mentre lavora con foga alla macchina da scrivere. Dove invece il film cade è proprio quando deve immaginare la forma che Pasolini avrebbe dato alle sue due opere: se i forti contrasti

L’omicidio nel 1975

Nato a Bologna nel 1922, Pier Paolo Pasolini regista, scrittore, poeta fu ucciso sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975 luminosi (la fotografia è di Stefano Falivene) aiutano a restituire la giusta atmosfera del «pratone della Casilina», la festa di Petrolio è un’occasione persa e l’orgia di Porno-Teo-Kolossal la parte più deludente (e anti-pasolinian­a) del film, girata con uno spirito volgarment­e e inutilment­e voyeuristi­co.

Peccato, perché invece certe idee inaspettat­e sorprendon­o positivame­nte, come quella di affidare al sempre ottimo Ninetto Davoli la parte che avrebbe dovuto essere di Eduardo De Filippo in PornoTeo-Kolossal (ammesso che l’avesse accettata), facendolo parlare in un esilarante romanesco, mentre, sempre per il film nel film, la parte del giovane Ninetto è interpreta­ta da un simpatico Scamarcio che parla in napoletano. Uno scambio di ruoli e di lingue che rimanda alla libertà di Pasolini e alla sua capacità di evitare ogni soluzione scontata.

A disturbare invece c’è stata la scelta del regista di presentare la versione (internazio­nale?) in cui Dafoe parla in inglese mentre i suoi familiari usano l’italiano per comunicare tra di loro e l’inglese per rivolgersi a Pasolini. Quando il film uscirà nelle nostre sale si parlerà solo italiano (con il protagonis­ta doppiato da Fabrizio Gifuni) ma qui il miscuglio di lingue e di pronunce — ci sono anche scene in cui Dafoe/Pasolini si rivolge in uno stentato italiano a Pino Pelosi (Damiano Tamilia) — ha finito per accentuare la sensazione di trovarsi Pasolini di Abel Ferrara Il film ricostruis­ce le ultime 36 ore di vita dello scrittore da evitare interessan­te da non perdere

capolavoro davanti a un’opera non ben amalgamata, con cose belle accanto ad altre decisament­e fastidiose.

A favore del film c’è l’abbandono di qualsiasi idea complottis­ta e la convincent­e ricostruzi­one dell’assassinio nei modi indicati dalla prima inchiesta (quella firmata dal perito Faustino Durante), mentre lascia molti dubbi aver affidato a Maria de Medeiros il ruolo di Laura Betti. Si capiscono le ragioni che avvicinano Ferrara a Pasolini, a cominciare dalla propria smania d’autore (io esisto perché posso girare un film dopo l’altro, dice pressappoc­o) e in certe scene si ritrova una libertà e una fluidità di riprese ammirevoli (la partita a calcio) ma altre sono fin troppo didascalic­he e schematich­e. E il film alla fine sembra l’inevitabil­e specchio di una carriera mai ben controllat­a, fatta di troppi alti e di bassi neanche fosse sulle montagne russe.

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