La «buona morte» diventa un business
Come comportarsi coi malati terminali? Lasciare solo al medico la responsabilità di decidere qual è il confine tra un livello ragionevole di cure mediche e l’accanimento terapeutico? Quanto e come coinvolgere il paziente e la sua famiglia in un difficile processo decisionale nel quale confluiscono, in modo spesso tumultuoso, nozioni scientifiche, convincimenti etici e istinti di compassione? Fino a che punto la sofferenza fisica del malato o gli enormi costi delle terapie sperimentali giustificano la rinuncia a tentare cure con poche speranze di riuscita o che possono allungare solo di poco la vita del paziente?
Domande angosciose, argomenti difficili da trattare e non solo per gli steccati che si alzano ogni volta che, a ragione o a torto, si finisce per sfiorare il tema dell’eutanasia. In Italia l’iter della legge sul testamento biologico è in stallo, ma anche laddove non ci sono grossi conflitti a sfondo etico-religioso, discutere di temi come la sospensione dell’alimentazione forzata è difficile: provi un disagio che sicuramente trasmetti anche al lettore. Eppure con l’invecchiamento della popolazione, con la capacità della medicina di cronicizzare malattie un tempo implacabili e con lo sviluppo di tecnologie che consentono di tenere in vita anche pazienti che versano in condizioni gravissime, questi problemi sono destinati a pesare sempre di più nelle nostre vite. Gli americani, per loro natura pragmatici, si chiedono da tempo se lasciare la questione ai medici, alle scelte del singolo paziente, o se introdurre criteri-guida e percorsi informativi che il personale sanitario può condividere col malato. Quando, però, cinque anni fa, il governo Usa provò a definire qualche criterio nell’ambito della riforma sanitaria di Obama, la dura reazione di Sarah Palin, che accusò il presidente di voler creare dei death panel, comitati di burocrati che decidono quali malati possono essere salvati e quali no, bloccò tutto. Era una forzatura quella della repubblicana radicale, ma fece breccia nell’innata diffidenza degli americani per le interferenze dello Stato nelle loro vite: da allora i politici, di destra come di sinistra, si sono tenuti alla larga da questo problema. Che, però, esiste ed è sempre più pressante.
Così ora sono scesi in campo i privati: l’associazione dei medici ha invitato gli iscritti ad avviare coi pazienti affetti da patologie molto gravi una «conversazione» sulle varie opzioni per il periodo terminale della loro vita: vogliono combattere fino in fondo o, giunti in una condizione irreversibile, preferiranno spegnersi con la minor sofferenza possibile? Dietro i medici si sono mosse le assicurazioni sanitarie che hanno cominciato a pagare le consulenze fornite ai pazienti su questi problemi, al pari delle altre visite o dei test clinici. Nel vuoto di governo, queste iniziative raccolgono molti giudizi positivi. E tuttavia l’intervento dei giganti assicurativi, che hanno un ovvio interesse a minimizzare le spese mediche da coprire, suscita qualche perplessità. Davanti al rischio che anche i consigli sulla «buona morte» divengano un business, gli americani ora si chiedono se un criterio passato attraverso il filtro della politica non sia, dopo tutto, meglio di una scelta basata su logiche di mercato.
Le assicurazioni pagano i medici per consulenze ai malati terminali